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Relazione dell'On. Alessandro Pagano al Seminario dell'Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà sul tema: "L'Europa che verrà". Subiaco 15 Novembre 2013

 

 

 

 

Per tentare di capire quale futuro attende l’Europa è necessario ricordare quale presente sta vivendo il Vecchio Continente.


Certamente un presente drammatico, visto il perdurare della crisi economica che ormai dal 2008 ha investito in misure differenti i vari stati membri. Certamente un presente nemmeno lontanamente immaginabile dai padri fondatori, che prevedevano per i cittadini europei un futuro di pace e benessere economico.

Il lungo cammino verso l’unione europea avrebbe dovuto portare ad una Europa integrata, dove uomini, mezzi, capitali e risorse potessero liberamente circolare senza ostacoli, sotto la protezione di una unica moneta, l’Euro, che avrebbe dovuto garantire la stabilità delle transazioni commerciali e il riparo da possibili attacchi speculativi esterni. Un benessere garantito dai principi di solidarietà tra stati e di sussidiarietà. In particolare, quest’ultimo è certamente quello in grado di garantire l’orientamento liberale dell’unione europea, in netta contrapposizione con il modello socialista che prevede una elevata ingerenza dello Stato nella vita dei cittadini. La sussidiarietà è il riconoscimento della centralità dell’individuo e dei gruppi sociali, in primis la famiglia, in contrapposizione alla centralità del ruolo dello Stato, tipico dei regimi socialisti. Un principio liberale di ispirazione cristiana, quindi, la condizione necessaria per sviluppare un modello sociale aperto e orientato al libero mercato.

Possiamo dire che l’unione europea è riuscita a sviluppare fino in fondo questo modello economico e sociale? Guardando i fatti sembrerebbe proprio di no. L’unione europea sta a tutti gli effetti diventando una gigantesca macchina burocratica, sempre più vicina a Bruxelles e sempre più lontana dai cittadini. Un gigantesco centro di potere dove vengono prese tutte le decisioni più importanti per la vita dei cittadini secondo un metodo che sta sempre più diventando quello tipico dei regimi centralizzati e dirigisti, dove l’economia viene pianificata a tavolino nei minimi dettagli e sempre meno spazio viene lasciato ai singoli stati e al libero mercato. Ne abbiamo una prova con la recente modifica dei trattati economici europei. Il fiscal compact e il six pack sono la miglior dimostrazione di come l’Europa si stia dirigendo verso una economia sempre più fatta di regole e sempre meno fatta di mercato. Non è la presenza di regole ad essere di per sé sbagliata. La scuola ordoliberale di Friburgo, che non dimentica la dottrina sociale della Chiesa, insegna infatti come esista un ordinamento di regole economiche che devono essere valutate (e quindi accettate) secondo il criterio della loro compatibilità con il funzionamento del libero mercato.

La Commissione Europea e le burocrazie di Bruxelles stanno sempre più diventando dei giudici con potere di vita o di morte sulle decisioni dei governi nazionali, i quali poco possono fare se non adeguarsi alle indicazioni che provengono dall’alto. Il potere centrale europeo sta aumentando di pari passo all’aumento del peso tedesco nel processo decisionale. Le politiche fiscali e monetarie stanno sempre più convergendo verso la politica di austerità e rigore monetario volute dalla Germania. Certamente ai tedeschi va riconosciuto il merito di aver fatto le necessarie riforme strutturali negli anni Duemila, nel momento in cui la Germania era definita “il grande malato d’Europa”. I governi socialdemocratici di Schroeder ebbero il coraggio di riformare il mercato del lavoro vincendo le forti resistenze dei sindacati in una ottica di maggior flessibilità in entrata e in uscita e di compartecipazione dei lavoratori ai risultati di impresa. Un coraggio che è stato premiato dalla straordinaria performance economica raggiunta dalla Germania negli ultimi anni. Con un tasso di disoccupazione vicino al 5% e una bilancia commerciale che viaggia ai massimi storici, l’economia tedesca è sicuramente destinata a fare da locomotiva europea ancora per tanti anni. Ma se è giusto tessere le lodi alla lungimiranza con la quale i politici tedeschi hanno saputo intraprendere l’arduo cammino delle riforme, altrettanto onestamente bisogna sottolineare le loro colpe. In primis quella di aver vincolato la politica monetaria ad un unico obiettivo, quello della lotta fobica all’inflazione, che in questo momento rappresenta certamente l’ultimo dei problemi tra le economie sviluppate, poiché se c’è un problema che la Bce si trova a dover risolvere è proprio quello inverso della deflazione. La fobia che tradizionalmente i tedeschi nutrono nei confronti dell’aumento dei prezzi può essere compresa dalla lettura delle loro esperienze storiche, ma non può essere giustificata in alcun modo alla luce dell’economia globalizzata di oggi. E’ proprio grazie all’aumento della concorrenza, infatti, se il livello dei prezzi è destinato a non aumentare più in futuro come in passato. Su questo punto è bene che i tedeschi comprendano come i meccanismi di funzionamento dell’economia sono radicalmente cambiati. Secondariamente, la visione tedesca si sta pericolosamente dirigendo verso una struttura di regole fiscali eccessive e verso un processo decisionale dirigista che sta soffocando l’economia privata. Ogni qualvolta il potere pubblico rinuncia al suo ruolo sussidiario, di aiuto soltanto nei casi in cui gli individui da soli non hanno le forze sufficienti per raggiungere un obbiettivo e assurge a mero arbitro delle decisioni che riguardano la vita di famiglie e imprese è la società che ne esce sconfitta. Laddove trionfa la burocrazia è la società civile a perdere. Laddove una cerchia ristretta di burocrati detiene il monopolio decisionale non ci si può attendere di trovare un terreno fertile per lo sviluppo di idee. Il modello centralizzato e dirigista è già fallito una volta alla prova della storia. Il sistema sovietico, emblema della pianificazione sistematica dal vertice, è fallito sotto il suo stesso peso. L’economia ne è uscita sconfitta perché quel sistema di regole e quel processo decisionale non erano in grado di resistere alle nuove pressioni della globalizzazione.

Il lato egoistico della Germania lo abbiamo percepito in occasione del mancato accordo sull’unione bancaria, più che mai necessario alla luce del recente credit crunch che ha investito la finanza con conseguente limitazione del credito erogato a famiglie e imprese. Lo stiamo vedendo inoltre con la vicenda legata ai fondi europei, in particolare all’ESM (fondo Salva stati) che dovrebbe essere un meccanismo perequativo di solidarietà per trasferire risorse finanziarie dagli stati più ricchi a quelli più poveri e che invece è diventato solamente un freddo e grigio veicolo finanziario utile per investire miliardi di euro in bund tedeschi, con la beffa, per l’Italia, di contribuire alla riduzione dei rendimenti dei bund tedeschi senza ottenere fondi in cambio. Non è questa la solidarietà europea che i padri fondatori avrebbero voluto.

L’unione europea rimane a tutt’oggi una grande incompiuta. Può essere definita un’area valutaria ma non un’area valutaria ottimale, nel senso definito dal Nobel per l’economia Robert Mundell. In assenza di cambi flessibili, infatti, una unione monetaria è destinata a reggere solamente in presenza delle seguenti condizioni: perfetta mobilità del fattore lavoro (i lavoratori si spostano immediatamente verso gli stati dove c’è più lavoro) e perfetta flessibilità dei salari, che supplisce all’impossibilità di svalutare la valuta in una ottica competitiva; infine, deve essere previsto un meccanismo perequativo che trasferisca risorse dai paesi più ricchi a quelli più poveri. L’Europa di oggi ha solo la valuta in comune. Non ha una perfetta mobilità del fattore lavoro (troppe ancora le differenze linguistiche, culturali e normative tra vari paesi), non ha una perfetta flessibilità del salario a causa delle mancate riforme strutturali del mercato del lavoro (su questo punto l’Italia è la prima delle colpevoli) e non ha messo ancora a punto un meccanismo adeguato di trasferimenti. Sull’ultimo punto è evidente che il salto deve essere fatto non a livello tecnico, poiché ci vuole poco a pensare ad un meccanismo perequativo funzionante, ma a livello politico. Solamente in presenza di una piena fiducia nel futuro europeo e alla solidarietà tra stati è possibile realizzarlo.

L’atteggiamento sospettoso e arrogante mostrato negli ultimi anni dai paesi dell’Europa settentrionale ha causato enormi danni al processo di integrazione. I trattati fiscali non mirano infatti a creare “più Europa”, ma solamente a creare freddi meccanismi di controllo e sanzionatori per i paesi che non si adeguano velocemente a delle regole che peraltro si stanno rivelando inefficaci per non dire assurde, che niente hanno a che fare con una economia di libero mercato. Non siamo (e forse non siamo mai stati) l’Europa della solidarietà, ma quella del sospetto, delle accuse vicendevoli, del tentare di salvaguardare l’interesse nazionale. Metaforicamente, l’Europa è come una coppia che sta assieme più per un patto prematrimoniale che non per affetto. Ma così, è evidente non si va da nessuna parte.

Molti ritengono che il processo di integrazione europea è nato nel secondo dopoguerra con De Gasperi, Adenauer e Shumann. Falso, iniziò molto prima, almeno dall’attività di San Benedetto da Norcia. Furono i benedettini a creare quel tessuto economico e sociale fatto di abbazie, monasteri e luoghi fisici che pian piano permearono tutta la geografica europea. Con il motto di “lavorare e pregare”, ovvero dell’essere laboriosi ma certi che senza l’aiuto vicendevole nessun lavoro può essere sufficiente. 

 Alessandro Pagano

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