Venerdì, 19 Aprile 2024


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Quei cattivi maestri che alimentano la violenza

Quei “cattivi maestri” che alimentano la violenza
Intervista all’On. Alessandro Pagano

A cura di Giuseppe Brienza

Ex docente di Ragioneria e Commercialista, Pagano ha debuttato in politica nel 1996, eletto deputato nell’Assemblea Regionale Siciliana con un largo consenso nella lista di Forza Italia. E’ quindi chiamato a guidare vari Assessorati in giunte regionali di centro-destra fra cui da ultimo, dal 2004 al 2006, quello ai Beni Culturali e alla Pubblica Istruzione. Nel 2006 viene rieletto per la terza volta deputato nell’Assemblea Siciliana, nominato Responsabile Organizzativo di Forza Italia per la Regione e, alle ultime elezioni, diventa parlamentare, per il Collegio Sicilia 1 della Camera dei Deputati, nella lista del Popolo della Libertà.

 Attentato a Berlusconi: perché tanto odio?

Non credo di esagerare se dico che la campagna di odio contro Silvio Berlusconi, per certi versi, assomiglia alla campagna di diffamazione che subì quasi quarant’anni fa’ il povero commissario Luigi Calabresi. Stesse violenze verbali, stesse pressioni mediatiche, stessa cattiveria. Per quanti non lo dovessero ricordare, per oltre due anni il commissario di polizia che indagava sul movimento anarchico dopo la strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana, subì una sistematica campagna diffamatoria che lo portò alla morte violenta il 17 maggio 1972. Certo non vogliamo arrivare a paragonare Berlusconi con Calabresi, due persone molto diverse, ma molto simili furono e sono le campagne di odio che hanno subito. Ricordare il “martirio” di quest’ultimo è molto utile affinché ognuno possa riflettere su quanto accaduto al Presidente Berlusconi e perché non vi sia mai più un altro caso Calabresi.

Giampaolo Pansa, negli ultimi tempi, sta scrivendo su tutti i giornali dove collabora che stanno tornando gli anni ’70 e le BR. Quali sono le caratteristiche culturali che inducono i giovani (e meno giovani) a richiamarsi all’ideologia comunista?

Vorrei a tal proposito fissare un solo punto. Pansa mi ha colpito quando, il 25 aprile dello scorso anno, ha detto chiaro e tondo quanto molti politici e giornalisti pensano ma non hanno il coraggio di dire: “la Liberazione non è la festa di un popolo ma è la festa di un partito… diventata un’adunata della sinistra che copriva di insulti chiunque parlasse dal palco e non appartenesse al loro clan”. I comunisti per 65 anni hanno utilizzato questa data per alimentare una cultura di odio e di rancore. E’ solo un esempio ma, vedendo questo, ci rendiamo facilmente conto di come possa nascere un clima di faziosità violenta nella nostra Patria. Per verificare quanto sia ancora forte l’attrazione comunista in molti ambienti, basta frequentare qualche scuola e università e ascoltare non tanto gli studenti, che miracolosamente rifiutano il comunismo, quanto soprattutto i professori che essendo oggi di quella generazione che ha fatto il ’68, continuano a respirare e a vivere la nostalgia della falce e martello.

Servirebbe quindi una nuova pedagogia per “archiviare” i cattivi maestri?

La cultura dell’impegno in alternativa alla cultura dell’indifferenza; l’educazione alla cittadinanza da contrapporre al bullismo o al nichilismo; il volontariato, la disciplina e la meritocrazia vincenti rispetto all’assenza dei valori e all’anarchia. Sono questi in sintesi gli obiettivi da ricentrare, fatti propri dal Governo Berlusconi e, in particolare, dal Ministro della Gioventù Giorgia Meloni. L’estate scorsa, la Meloni ha ad esempio lanciato un programma educativo molto interessante, per quasi 1500 ragazzi reclutati tra i più meritevoli in età compresa fra i 16 e i 22 anni, cui ha assicurato una vacanza “alternativa”. I ragazzi, infatti, sono stati ospiti di Vigili del Fuoco, Guardie Costiere, Accademie Navali e Forestali, e hanno imparato a condividere con i professionisti dei vari corpi cosa significa amare la natura e la persona, nonché contribuire alla ricostruzione del martoriato Abruzzo. Con questo programma la Meloni prova intelligentemente ad invertire la deriva diseducativa in atto da almeno quarant’anni. Credo quindi si tratti di un piccolo, ma significativo, antidoto che la politica ha trovato per superare quella sottocultura del desiderio e della trasgressione che la fa da padrona in televisione nelle piazze e, purtroppo, anche in molte scuole.  

Una rinnovata cultura del merito e della severità nella scuola statale gioverebbe?

Sicuramente e, mi pare, il Governo stia facendo la sua parte. Basti pensare, sul piano della “severità”, ai risultati degli ultimi esami di maturità: i non ammessi sono stati circa 29 mila, quasi il 30% in più dell’anno scorso. Anche la media dei voti si è abbassata e i 100 sono stati il 10% in meno. Con le nuove regole della Riforma Gelmini (ammissione con la media minima del sei; il cinque in condotta elemento ostativo all’ammissione; maggiore valorizzazione del curriculum, cioè dei risultati ottenuti in costanza di studio, piuttosto che della buona prestazione occasionale del solo ultimo anno) il percorso scolastico ha ricominciato ad essere serio.     

Eppure ogni volta che finisce l’anno scolastico un po’ tutti, genitori, insegnanti, politici, reclamano forte il bisogno che venga trattato l’argomento “educazione”, visto che tanta preoccupazione desta nelle famiglie italiane.  

Educare è condurre da qualcosa verso qualcos’altro, o se si vuole,  condurre da una storia, da un passato, da una tradizione, verso un futuro. Invece da tempo passa il messaggio che non vi sia nulla di buono nella storia che ci ha preceduto, e che quindi nulla dobbiamo attingere dalla nostra tradizione. Ma come si fa a far passare questo semplice messaggio se di fatto, tra il mondo degli adulti e quello giovanile, c’è in atto una “cesura”? L’educazione non è un atto automatico, non è una trasmissione meccanica che si realizza da un essere ad un altro. Il problema non sono solo i giovani, che attraversano una fase della loro vita che è fatta anche di contestazione; il problema sono gli adulti che hanno delegato ai mass-media il loro ruolo educativo.  

La scuola statale, tranne poche lodevoli eccezioni, non pare però essere in grado di assumere, insieme alla famiglia, questo importante compito educativo.

E’ certo che lo stato di salute della scuola italiana è pessimo. La maggior parte dei giovani che escono da un percorso scolastico o universitario è quasi priva delle più elementari conoscenze e capacità che un tempo scuola e università fornivano. A questo fine occorre riproporre quel patto tra scuola, politica e società che, fino ad una quarantina di anni fa’ ha, con i suoi limiti, sostanzialmente “retto”. Per esempio la scuola esigeva studio e fatica e la famiglia era d’accordo. La meta da raggiungere era condivisa: una buona formazione culturale che la scuola s’impegnava a fornire. Adesso questo patto è saltato, la società e molti genitori remano contro e desiderano che i giovani siano lasciati in pace, senza traumi, punizioni, prezzi da pagare. Quando pedagogisti e politici chiedono che la scuola sia facile e divertente, che abolisca le difficoltà, la fatica e l’impegno, in realtà chiedono alla scuola di snaturarsi e di abdicare anche lei, così come hanno già fatto gli stessi genitori. E la scuola alla fine si è adeguata!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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