Giovedì, 28 Marzo 2024


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Intervento dell'On. Alessandro Pagano in materia di liberalizzazioni

 

 

Signor Presidente, Onorevoli colleghi!

Il provvedimento in materia di liberalizzazioni che quest’oggi ci apprestiamo a votare e che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto inaugurare una stagione di riforme e progresso per il Paese sta, in realtà, tradendo l’essenza e l’anima liberale che crediamo appartenere a questo esecutivo.


 

Per usare un’espressione dell’autorevole economista Francesco Giavazzi: “Il provvedimento che verrà approvato è un’immagine molto sbiadita dell’afflato liberista che ispirò il primo testo del governo”.

Nonostante ciò, il senso di responsabilità nei confronti degli italiani, ci impone di non negare la fiducia al governo e soprattutto di non vanificare la ritrovata coesione politica e istituzionale necessaria per il superamento della crisi del debito sovrano e per contrastare efficacemente gli attacchi della speculazione finanziaria.

Non di meno, non compiremmo fino in fondo i doveri propri del nostro ufficio se ci sottraessimo dal muovere gli inevitabili rilievi critici al provvedimento nel suo complesso, visto che le misure in esso contenute sono ben lungi dal realizzare la svolta epocale che il Paese si attende.

Il decreto liberalizzazioni, così come elaborato e strutturato, più che di riforma – come invece ci saremmo aspettati -  altro non è che un intervento di riordino di alcune materie o settori economici. Non possiede, infatti, alcuno slancio né potenziale in direzione di una vera e propria riforma dell’ingessato e non competitivo sistema italiano.

Un mero intervento di “ordinaria amministrazione”, dunque, che rivela la mancanza di coraggio di un governo che avrebbe potuto e dovuto osare di più, potendo annoverare al suo interno personalità che godono della stima e dell’apprezzamento al più alto livello internazionale e, soprattutto, potendo contare su una maggioranza amplissima che ha permesso di agire con tempestività e fermezza in ambiti controversi e difficili come il “fronte caldo” delle pensioni.

Così, purtroppo, non è stato. Un’occasione sprecata per ridare slancio all’economia a partire da iniziative più incisive ed efficaci.

I fatti dimostrano invece che si sta continuando a tergiversare.

Ci saremmo aspettati, anzitutto, un poderoso e incisivo intervento di delegificazione che riducesse i tanti ed eccessivi vincoli, spesso contraddittori e inutili, che ostacolano il lavoro e la crescita delle imprese e pongono a carico dei cittadini oneri insostenibili, specie nei confronti delle famiglie con redditi bassi.

In una fase prossima alla recessione quale è quella che l’Italia sta attraversando - confermata tra l’altro dalle recenti stime Istat sul calo del Pil nel primo trimestre del 2012 - sarebbe stato più che mai necessario avviare interventi come la riforma dell’art. 41 della Costituzione  nel senso di andare nella direzione di dichiarare esplicitamente legale tutto ciò che non è esplicitamente vietato dalla legge. Questa sarebbe stata una riforma epocale che avrebbe rimosso inattuali e anti-storici vincoli alla libertà d’impresa e agevolato la nascita di nuove attività imprenditoriali nonché l’espansione di quelle già esistenti, e in modo da attrarre investimenti e capitali dall’estero.

Ad oggi, ambedue le iniziative non sono in cima all’agenda setting del governo.

Ci saremmo aspettati, in altre parole, più idee, proposte e iniziative dal nuovo esecutivo che non solo sta limitandosi a sviluppare progetti elaborati e predisposti dal precedente governo, così come è stato anche ammesso, ma sembra portare avanti una sorta di gestione ordinaria degli affari correnti, più consona ad un commissario liquidatore di una società sottoposta a procedura concorsuale che non al Consiglio dei ministri di una Paese con le risorse e le potenzialità dell’Italia.

Risorse e potenzialità in grado di permettere al Paese di superare questa fase storica così complessa e dura, se governate con coraggio e lungimiranza.

Due aspetti essenziali della funzione di governo di cui, a detta di illustri e autorevoli commentatori, difettano interventi importanti come quello della ventilata riforma del mercato del lavoro.

Una riforma più annunciata che concreta, vista l’incapacità di superare i veti incrociati di Confindustria e associazioni sindacali che continueranno, quale che sia l’esito della trattativa,  a beneficiare comunque del sostegno dello Stato, precluso invece alle piccole e medie imprese, le cui associazioni rappresentative non sono state ammesse al negoziato nonostante la riforma esplicherà i propri effetti quasi esclusivamente su di esse e nonostante il tessuto economico del Paese si regga quasi del tutto sulle pmi. 

E’ chiaro per tutti che il momento presente è difficile e che il nostro Paese è stretto in una morsa le cui ganasce – consentitemi la metafora forse impropriamente desunta dalla scienza meccanica – sono, per ciò che attiene ad un profilo interno l’ingessatura del sistema-Paese e per ciò che attiene ad un profilo esterno, le pressioni che ci vengono dai mercati internazionali. Non voglio tediare questa Assemblea ricordando che l’Istat ha ufficializzato che l’Italia è in recessione perché il Pil è in calo e perché la produzione industriale arretra o rammentando che le agenzie di rating ci hanno declassato due volte. Oggi il Paese può contare su un Governo tecnico, “di tregua” oserei dire, rispetto al quale le forze politiche hanno sì fatto un passo indietro sotto la spinta di un forte senso di responsabilità, ma al quale non hanno certo lasciato carta bianca. Non è un caso, infatti, che entrambi i rami del Parlamento abbiano lavorato, specie in relazione al provvedimento sul quale siamo chiamati ad esprimerci proprio oggi, giorno e notte e in una logica di dialogo costruttivo, con un atteggiamento aperto ma nel contempo critico perché al fondo della questione c’è sempre e solo il bene del Paese. Tale atteggiamento delle Camere, e ancor più delle Commissioni di merito, vale a maggior ragione perché esse sono ben consapevoli che questo Governo non è espressione della volontà popolare. Sì, dunque, a lasciare lavorare i tecnici, ma ancor più sì alle valutazioni della politica sull’operato dell’Esecutivo e ciò perché la priorità è fare in modo che i sacrifici chiesti alle nostre famiglie, alle nostre imprese e ai nostri lavoratori, si traducano in tempi ragionevoli in crescita, progresso, competitività e benessere diffuso. Con onestà si può dire che il decreto liberalizzazioni, sopprimendo taluni odiosi laccioli che ingessano il nostro sistema produttivo, si pone su questa strada. Però questo non è bastevole. Faccio un esempio tra i tanti. Fra le tante contraddizioni presenti in questo decreto. Le professioni sono una risorsa di questo Paese. Esse sono state modernizzate ma si fatica davvero a cogliere la portata liberalizzatrice di talune norme introdotte. Tanto più in un quadro in cui, anche per quanto concerne le tariffe, ne era gia' stata disposta la piena liberalizzazione con la legge di stabilita' dello scorso agosto, grazie al governo Berlusconi che non solo era stato capace di adottare decisioni, ma pure di farlo raccogliendo il consenso dei diretti interessati.

Oggi oltre a non esserci liberalizzazioni, per altro, con questo provvedimento si introducono vere e proprie complicazioni che, con un minimo di attenzione e buon senso, si sarebbero potute evitare.

Penso in particolare alla riduzione del tirocinio professionale a 18 mesi senza alcun tipo di norma di coordinamento finalizzata ad evitare assurde penalizzazioni ai giovani dottori commercialisti, per i quali la direttiva comunitaria impone comunque un tirocinio di 36 mesi per la funzione di revisione legale dei conti.

Noi una soluzione l'avevamo proposta, ma e' stata inspiegabilmente stralciata dal Governo e ora i giovani dottori commercialisti corrono seriamente il rischio di dover fare due esami distinti, uno dopo 18 mesi e uno dopo altri 18.

Voglio sperare che, se davvero questo governo ha un minimo a cuore la facilitazione all'accesso dei giovani alle libere professioni, questa assurda stortura venga quanto prima raddrizzata, recuperando il semplice accorgimento normativo che avevamo gia' messo a punto e formalizzato.

Cogliamo il lato positivo di questo provvedimento e il senso della fiducia che il nostro partito sta accordando. Il provvedimento odierno non è un punto d’arrivo ma solo un punto di partenza.

Se così sarà la giornata odierna non potrà che essere considerata positiva altrimenti i posteri non potranno che considerarla un’ennesima occasione persa.

Signor Presidente del Consiglio proprio in questi giorni l’Inghilterra di Cameron ha lanciato una vera e propria riforma in tema di liberalizzazione e del mercato del lavoro. L’hanno chiamata “mutualization” e con essa gli inglesi intendono ridurre i dipendenti pubblici da 3,5 milioni a 2,5 attraverso la fuoriuscita dal settore pubblico verso settori privati che avranno la gestione in convenzione degli stessi servizi.

E’ evidente l’intento degli inglesi di far ritrovare efficienza ed efficacia alla loro P.A. che anche lì appare inadeguata e costosa. Ma loro lo fanno con una riforma rivoluzionaria e coraggiosa.

A maggior ragione in Italia sono necessarie misure forti e concrete non certo pannicelli caldi.

D’altronde Signor Presidente la recente riforma delle pensioni ha dimostrato che la determinazione e la forte volontà hanno prodotto risultati certi  e virtuosi e la pressione sociale e mediatica che tutti temevano alla fine si è ridotta in un paio di settimane di discussione e nulla di più.

Questa è l’unica strada. Non ce sono altre. 

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