Eliminare ogni forma di assistenzialismo e investire sulle grandi opere infrastrutturali, unica possibilità di sviluppo per il Paese.





La Roma imperiale, ai tempi dell’imperatore Costantino, contava quasi 2 milioni di abitanti. Poi nei primi anni del 1300, quando i Papi si trasferirono ad Avignone, la popolazione scese a 17 mila, in pratica Roma si era ridotta ad un villaggio di pastori. Quando però Gerusalemme cadde nelle mani degli islamici, Santa Caterina convinse l’allora Pontefice, che era un francese, a ritornare a Roma e fu allora che il Papa e i suoi successori si lanciarono in un piano straordinario di sviluppo infrastrutturale per fare di Roma la nuova Gerusalemme. Furono convocati i migliori artisti, architetti e ingegneri e nel giro di pochi decenni Roma ritornò al suo splendore e i suoi abitanti aumentarono esponenzialmente.


Così come allora per rilanciare l’Italia, e il Sud in particolare, occorre una nuova stagione capace di realizzare una piena giustizia sociale.
In tal senso l’assistenzialismo vergognoso che è stato “donato” al Sud, ha negato a questo territorio la giustizia sociale e lo ha impoverito. 
Esso ha infatti soffocato le potenzialità del territorio, ha necrotizzato le intelligenze e la buona volontà e ha deresponsabilizzato intere generazioni.
Un esempio di buona giustizia sociale invece è quello delle politiche di infrastrutturazione. In assenza di esse, infatti, un Paese può soltanto essere invaso commercialmente perché non è competitivo. Non producendo, infatti, è costretto ad acquistare altrove i beni necessari per vivere e in più li deve pagare a caro prezzo. Solo grazie allo sviluppo delle infrastrutture gli uomini, le risorse e le idee possono circolare in maniera efficiente; in caso contrario, un territorio esce dal mercato e diventa inutile zavorra. Proprio l’altro giorno un mio amico imprenditore siciliano, operante nel settore informatico e con una interessante nicchia di mercato a livello mondiale, mi confidava che stava pensando di lasciare il centro Sicilia dove attualmente opera, e di investire in un nuovo stabilimento in altra area, perché la fibra ottica in banda larga giganet non arriva nelle provincie interne della Sicilia. Mi chiedo: ma è facile fare impresa quando ci sono queste deficienze strutturali?
È noto poi che il livello di infrastrutture del Sud è di un terzo inferiore a quello delle province più forti del Nord Italia.

Dal 1951 al 1973, periodo in cui la Cassa per il Mezzogiorno svolgeva “bene” la propria attività realizzando in pieno la sua mission, il differenziale tra il Nord e il Sud del Paese era diminuito nettamente rispetto a prima. Quando poi il DL 415/92 sancì la fine della “Cassa”, quelle funzioni furono trasferite alle Regioni e l’intervento dello Stato, che fino a quel momento era stato “ordinario”, divenne straordinario. Questo passaggio di competenza fu giustificato dall’idea che le Regioni, centri di potere territoriale, avrebbero garantito migliore efficienza amministrativa e maggiore velocità decisionale.
Nella realtà invece è accaduto che si sono moltiplicati i soggetti decisori nonchè i costi amministrativi. Per fare un esempio, oggi per realizzare opere di importo superiore a 10 milioni di euro, al Sud occorrono 8/10 anni (4 nel caso di importi inferiori). Altro che efficienza e velocità! Tutte queste disfunzioni oltretutto hanno finito per scoraggiare l’iniziativa imprenditoriale.
Il passaggio di poteri alle Regioni pertanto si è rivelato assolutamente fallimentare. Le Regioni, con il loro federalismo ante litteram, mal realizzato, erano mancanti di una programmazione coerente e mancavano, allora come oggi, di capitale umano formato (la scelta del precariato al Sud fu pagata, e si continua a pagare tutt’oggi a caro prezzo). L’esperienza dimostra che solo l’ampiezza di visione di uno Stato, oltre che la sua maggiore organizzazione, può garantire investimenti strutturali di grandi prospettive.
Con la chiusura dei battenti della Cassa del Mezzogiorno infatti si verificò il boom dei cosiddetti “progetti sponda”, cioè progetti di piccolo spessore che hanno bruciato risorse senza realizzare alcun vero sviluppo.
Nel 1998 l’allora Presidente del Consiglio presentò a Catania un Convegno dal titolo “100 idee per lo sviluppo”. Cento miliardi di vecchie lire (una enormità per l’epoca) furono spese per 100 piccole opere, utili a se stesse forse, ma per niente vocate a realizzare un autentico sviluppo.
Ancora, nel POR 2000-2006 le Regioni meridionali spesero 43,2 miliardi (pari al 94% dei fondi) dimostrando una buona capacità di spesa; ma quelle spese purtroppo non erano strategiche. Il risultato fu che da quel momento il già debole “sistema economico del Sud” cominciò ad arretrare sotto il profilo competitivo e si fece sorpassare addirittura da Spagna, Irlanda, Grecia. Probabilmente se la regia fosse stata affidata allo Stato, la filosofia sarebbe stata diversa: poche opere, ma tutte di grandi importi e tutte strategiche per il sistema Paese.
Non ci sono dubbi! Bisogna ritornare ai progetti strategici, come fu l’Autostrada del Sole negli anni Sessanta.
Oggi che l’ENAC prevede per il 2030 un aumento di ben oltre il 100% nel numero di viaggiatori che si serviranno degli aeroporti siciliani; oggi che i poli più dinamici del mercato mondiale sono India, Cina, Turchia, Russia ed Egitto cioè Stati che vedono nel bacino del Mediterraneo il principale mercato di sbocco dei loro prodotti e di approvvigionamento energetico; oggi che l’Unione Europea considera il Mezzogiorno d’Italia l’area più sottoutilizzata dell’intero territorio comunitario, bisogna comprendere che occorre puntare sul Sud non solo per tirarlo fuori dalla condizione di arretratezza, ma soprattutto per realizzare nuove opportunità per l’intero Paese.
Per concludere: cessazione immediata di ogni forma di assistenzialismo e immediati investimenti in grandi opere strutturali. Il rilancio  dell’Italia e soprattutto del Sud parte da qui!

Alessandro Pagano