Disposizioni concernenti il divieto di produzione, importazione e commercio di merci prodotte mediante l’impiego di manodopera forzata, e in schiavitù.




PROPOSTA DI LEGGE

D'INIZIATIVA DEI DEPUTATI:

Pagano, Sposetti, Moffa, Calgaro, Laffranco, Volontè, Cimadoro, Toccafondi, Polledri, Farina Renato, Sbrollini, Marinello, Compagnon, Montagnoli, Abelli, Alfano, Angeli, Antonione, Aprea, Aracri, Aracu, Armosino, Ascierto, Barani, Barba, Barbareschi, Barbieri, Beccalossi, Bellotti, Berardi, Bergamini, Bernardo, Berruti, Bertolini, Biancofiore, Biasotti, Biava, Bocciardo, Bragantini, Carlucci, Cassinelli, Castagnetti, Castellani, Castiello, Catanoso Genoese, Cazzola, Centemero, Ceroni, Cesaro, Ciccioli, Cicu, Cirielli, Giorgio Conte, Cosenza, D'Anna, De Angelis, De Camillis, De Corato, De Girolamo, De Luca, Del Tenno, Della Vedova, Di Biagio, Di Cagno Abbrescia, Di Centa, Di Virgilio, D'Ippolito Vitale, Faenzi, Fallica, Gregorio Fontana, Vincenzo Antonio Fontana, Antonino Foti, Tommaso Foti, Frassinetti, Garagnani, Garofalo, Gava, Germanà, Ghiglia, Giammanco, Girlanda, Golfo, Gottardo, Granata, Grimaldi, Holzmann, Iannarilli, Iapicca, Jannone, Lainati, Lamorte, Leo, Lo Presti, Lunardi, Malgieri, Mancuso, Giulio Marini, Marchi, Marsilio, Antonio Martino, Mazzoni, Mazzuca, Milanese, Minardo, Minasso, Mistrello Destro, Misuraca, Moles, Mottola, Murgia, Mussolini, Osvaldo Napoli, Nirenstein, Nizzi, Nola, Orsini, Palmieri, Paroli, Patarino, Pelino, Antonio Pepe, Petrenga, Pianetta, Picchi, Piffari, Pili, Pizzolante, Polidori, Porta, Pugliese, Rampelli, Repetti, Romele, Luciano Rossi, Mariarosaria Rossi, Ruben, Paolo Russo, Saltamartini, Scalia, Scandroglio, Scapagnini, Soglia, Speciale, Stagno D'Alcontres, Stasi, Stradella, Testoni, Tortoli, Toto, Traversa, Vella, Vignali, Zacchera. 


ONOREVOLI COLLEGHI! - Dopo la rivoluzione industriale l’Occidente iniziò a sentire i problemi del mancato rispetto delle norme fondamentali sulla tutela dei lavoratori nonché degli effetti della concorrenza sleale esercitata da taluni paesi aventi un livello molto basso di norme sociali; fu per questo che, nel 1919, venne fondata l'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL). Inizialmente l’OIL si orientò verso l'elaborazione di un codice del lavoro vincolante per tutti; visto lo scarso successo, la sua attività si concentrò, in seguito, nel definire molteplici princìpi di tutela del lavoro, raccolti in convenzioni che furono via via ratificate dai singoli Paesi aderenti.

Il problema del diverso e spesso insufficiente livello di tutela del lavoro in talune parti del mondo e degli squilibri che ne conseguono sul piano della concorrenza nei commerci internazionali è tuttavia ben lungi dall’essere stato risolto, e si presenta anzi con aspetti drammatici laddove lo sfruttamento del lavoro umano assume le vere e proprie forme della schiavitù.

Giova ricordare a questo riguardo la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che, all’articolo 5, concernente la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato, recita:

“1. Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù.

2. Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio.

3. È proibita la tratta degli esseri umani”.

In quest’ambito, la questione dello sfruttamento del lavoro è un argomento estremamente delicato e complesso le cui soluzioni non possono essere improvvisate e neppure possono nascere sull'onda emotiva di episodi, ancorché veritieri e preoccupanti, riportati dalle cronache. Il dibattito sull'opportunità di sottomettere gli accordi commerciali al rispetto di norme minime di tutela del lavoro non costituisce una novità, ed è anzi fortemente sentita la necessità di frenare il deprecabile fenomeno del ricorso al lavoro forzato.

L’attuale fase di recessione economica e il crescente tasso di disoccupazione hanno riacceso il dibattito sull'argomento e posto il problema se, al fine di promuovere e di assicurare il rispetto delle norme fondamentali in materia di lavoro, il Governo debba ricorrere a nuove politiche commerciali magari inserendo una sorta di "clausola sociale" o “etica” nei nuovi accordi commerciali internazionali, com’era già stato previsto nel General Agreement on tariffs and trade – GATT (Accordo generale sulle tariffe ed il commercio) del 1947 mediante l’inclusione della clausola contenuta nella lettera (e) dell’articolo XX, la quale permetteva agli Stati membri di vietare le importazioni dei prodotti del lavoro forzato. In questo spirito, ad esempio, si comincia a proporre alle imprese multinazionali l'adozione di codici di comportamento etici, accompagnati da veri e propri "marchi sociali", per contraddistinguere le produzioni effettuate nel rispetto dei diritti umani minimi (ad esempio, il programma Rugmark è un sistema di etichettatura e di certificazione aziendale, adottato in India dai fabbricanti di tappeti che hanno eliminato il lavoro minorile illegale, che si sta ora estendendo, non senza difficoltà, anche in Nepal e in Pakistan).

L'Unione europea, per parte sua, ha stabilito, sin dal 1971, un sistema generalizzato di clausole di preferenza che comporta la riduzione dei diritti doganali su molte merci esportate dai paesi in via di sviluppo, purché siano prodotti nel rispetto di determinate norme sociali e ambientali. Sotto forma di clausole di preferenza aggiuntive, dagli anni novanta in poi sono stati individuati dall’Unione europea regimi speciali di incentivazione messi a disposizione degli Stati che dimostrano di avere adottato e applicato effettivamente le Convenzioni OIL n. 29 del 1930 e n.105 del 1957 (sull’abolizione del lavoro forzato ed obbligatorio), n. 87 del 1948 e n. 98 del 1949 (sulla libertà e protezione del diritto sindacale e sul diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva), n. 138 del 1973 e n. 182 del 1999 (sull'età minima per l’assunzione all’impiego e sulla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile). Sempre secondo tali disposizioni, gli Stati che dimostreranno di rispettarle beneficeranno di un accesso privilegiato ai mercati dell'Unione europea.

Anche gli Stati Uniti d’America hanno adottato disposizioni legislative che subordinano la concessione di privilegi commerciali al rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori e con la legge n. 1307 hanno vietato l’importazione di prodotti e di merci manufatte tramite lavoro forzato.

Tuttavia, sebbene siano stati presi numerosi provvedimenti sia di carattere internazionale e comunitario che nazionale, il lavoro forzato è ancora una terribile realtà. Sono milioni le persone impiegate con lavoro forzato in vari paesi dell’Asia e dell’Africa in ogni genere di industria, da quella dell’estrazione mineraria (in particolare aurifera, diamantifera e dello zolfo) alle confezioni tessili e nei più svariati settori merceologici. Allo stato attuale uno dei casi più eclatanti è quello degli oltre mille campi di lavoro forzato cinesi, i cosiddetti laogai. Le testimonianze di chi fortunatamente è riuscito a sopravvivere raccontano le disumane condizioni in cui versano i prigionieri, spesso privati di cibo e sonno, oggetto di  sevizie e torture, di esecuzioni senza processo e persino di traffici di organi, per i quali sovente l'unica via di fuga è il suicidio. In questo modo i detenuti diventano una forza lavoro a costo zero, tant'è che ogni laogai ha spesso due nomi: quello del centro di detenzione e quello della fabbrica collegata. Stando sempre alle medesime testimonianze, in questi campi, i detenuti sono costretti a lavorare, sette giorni su sette, sino a diciotto ore al giorno e spesso in condizioni pericolose o a contatto con prodotti chimici tossici senza alcuna protezione. Si spiega allora come, grazie a questa manodopera non retribuita operante nei laogai, molte industrie cinesi possano immettere sui mercati prodotti a prezzi stracciati, altamente competitivi rispetto ai prezzi occidentali, aumentando, quindi, il livello di concorrenzialità nei confronti delle nostre imprese, che operano ovviamente nel rispetto della legislazione nazionale. Quest'ultimo effetto, assume connotati inquietanti in un momento di profonda crisi economica come quello che il mondo sta attraversando.

Anche l’Italia non è totalmente estranea alla pratica del lavoro forzato. Si prendano ad esempio i laboratori clandestini di Prato o di altre città nei quali si realizza una vera e propria riduzione in schiavitù dei lavoratori. Prato, unico distretto cinese d’Italia, ospita attualmente 3.400 aziende manifatturiere orientali che contano circa 40.000 addetti tra cui 30.000 clandestini. I datori di lavoro mantengono in condizioni di assoggettamento i loro dipendenti tenendoli rinchiusi nel luogo di lavoro e costringendoli a pagare con le loro 16-18 ore di lavoro quotidiano, una sorta di debito per l’ingresso in Italia e l’alloggio ottenuto.

Tali imprese orientali che operano prettamente nel settore dell’abbigliamento controllano rigidamente tutte le fasi del processo produttivo, dall’importazione sottocosto dei tessuti, che provengono dai summenzionati laogai,  alla rifinitura dei capi, dal trasporto alla vendita. Esse,  pur sfuggendo alle norme di natura commerciale, infortunistica,  sanitaria e previdenziale vigenti in Italia, godono di un giro di affari miliardario, potendosi i loro prodotti, interamente confezionati in Italia, fregiarsi dell’etichetta “made in Italy”.

Attualmente il nostro ordinamento sanziona pesantemente coloro i quali mantengono altre persone in una posizione di soggezione lavorativa (codice penale, articolo 600), tuttavia non prevede il divieto del commercio e la confisca dei beni prodotti nei laboratori clandestini.

Pertanto il dovere morale di deplorare e di combattere ogni abuso e qualsiasi forma di sfruttamento del lavoro, specie se di detenuti, costituisce un dovere fondamentale di democrazia liberale.

La presente proposta di legge è stata concepita allo scopo di contrastare ogni forma di sfruttamento del lavoro forzato di uomini, donne, vecchi e bambini i quali lavorano in condizioni di schiavitù che nessuna motivazione ideologica potrà mai in alcun modo giustificare.

Quest’iniziativa legislativa istituisce il divieto di produrre, importare e commerciare manufatti prodotti attraverso il lavoro forzato e prescrive l’adozione di sistemi idonei ad accertare, tramite l’istituzione di un albo nazionale e di un marchio di conformità sociale, che in nessuna fase della lavorazione o confezionamento del prodotto venga in alcun modo utilizzata manodopera forzata.

PROPOSTA DI LEGGE  

ART. 1

(Divieto della produzione, dell’importazione e del commercio di merci prodotte mediante l’impiego di manodopera forzata, e in schiavitù)

1. E’ vietata la produzione, l’importazione e il commercio nel territorio nazionale, a qualsiasi titolo, di ogni merce, comprese le materie prime, i semilavorati e i prodotti intermedi, che sia stata prodotta mediante l’impiego di lavoratori posti in condizione di lavoro forzato, e in schiavitù, come definito ai sensi della Convenzione OIL n. 29 del 1930 sul lavoro forzato ed obbligatorio resa esecutiva dalla legge 29 gennaio 1934, n. 274.  

ART. 2 ( Divieto di stipulare accordi commerciali)

1. Alle imprese operanti in Italia è fatto divieto di stipulare accordi commerciali, di cooperazione o di coproduzione con imprese che si avvalgono di manodopera forzata, e in schiavitù.  

2. E' vietato cedere a titolo oneroso e gratuito, anche in locazione, , beni immobili, aziende e rami d’azienda, beni mobili, beni strumentali a imprese che si avvalgono di manodopera forzata, e in schiavitù.  

3. E' vietato cedere a titolo oneroso e gratuito, anche in locazione, beni immobili, aziende e rami d’azienda, beni mobili, beni strumentali a imprese che impiegano merci, comprese le materie prime, i semilavorati e i prodotti intermedi, prodotte mediante l’impiego di manodopera forzata, e in schiavitù.  

ART. 3 (Istituzione di un Albo e di un marchio di conformità sociale)

1. Al fine di diffondere fra i consumatori italiani la conoscenza dei beni prodotti e commercializzati sul territorio nazionale per la cui lavorazione non è utilizzata manodopera forzata, e in schiavitù, è istituito l’Albo Nazionale dei prodotti realizzati senza l’impiego di lavoro forzato, e in schiavitù e delle relative imprese produttrici, di seguito denominato «Albo». L’iscrizione all’Albo, su richiesta dell’impresa, può riguardare singolarmente uno o più prodotti ovvero l’impresa nel suo complesso, relativamente a tutti i beni da essa prodotti. Alla tenuta dell’Albo provvede il Ministero dello sviluppo economico.  

2. Il Ministro dello sviluppo economico, con proprio decreto, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, istituisce un apposito marchio di conformità sociale, sotto forma di logotipo, che le aziende iscritte all’Albo appongono sulla confezione dei propri prodotti. Il marchio deve consentire al consumatore di identificare chiaramente e rapidamente il prodotto ottenuto senza l’impiego di manodopera forzata, e in schiavitù.  

3. L’iscrizione all’Albo è volontaria. La richiesta è presentata dall’impresa interessata, unitamente a una dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante dell’impresa medesima ai sensi dell’articolo 47 del testo unico delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestante che in nessuna fase della produzione o della trasformazione, relativa al prodotto per il quale è richiesta l’iscrizione o al complesso dei prodotti dell’impresa per i quali è richiesta l’iscrizione, è impiegata manodopera forzata, e in schiavitù. La dichiarazione deve altresì indicare le categorie di manodopera impiegate, gli orari massimi di lavoro, l’importo minimo delle retribuzioni corrisposte e le condizioni di sicurezza dei lavoratori. La dichiarazione deve inoltre attestare l’inesistenza di condanne a carico del legale rappresentante dell’impresa e dei soggetti posti in posizioni direttive dell’impresa stessa per i reati di cui all’art. 600 c.p., nonché di cui agli artt. 14 e 22 D. L.vo 286/98. 

4. La dichiarazione di cui al comma 3 è rinnovata almeno ogni triennio. L’impresa iscritta all’Albo deve in ogni caso comunicare, entro un mese dal verificarsi dell’evento o dalla data in cui ne ha avuto conoscenza, ogni violazione del divieto stabilito dall’art. 1 relativamente all’impiego di manodopera forzata, e in schiavitù e le misure adottate al fine di ristabilire l’ottemperanza alle disposizioni della presente legge. In caso di mancato rinnovo triennale della dichiarazione, il Ministero dello sviluppo economico cancella il prodotto o l’azienda dall’Albo. L’impresa per la quale sia stata disposta la cancellazione dall’Albo non può richiedere una nuova iscrizione prima che siano trascorsi 3 anni dalla data di cancellazione.  

5. Il Ministero dello sviluppo economico, attraverso controlli anche a campione, verifica la conformità dei processi produttivi alle dichiarazioni di cui al comma 3. Qualora accerti la falsità del contenuto della dichiarazione, salva ogni altra responsabilità, il Ministero dello sviluppo economico cancella il prodotto o l’azienda dall’Albo. La cancellazione dall’Albo è disposta obbligatoriamente se sopravviene a carico del legale rappresentante dell’impresa o di soggetti in posizione direttiva una condanna per i reati di cui all’art. 600 c.p., nonché di cui agli artt. 14 e 22 D. L.vo 286/98, o se si verifica la falsità della dichiarazione presentata con riferimento a precedenti condanne. Quando lo ritenga opportuno, il Ministero dello sviluppo economico dispone che la cancellazione sia comunicata al pubblico, a spese dell’impresa interessata, nelle forme stabilite dal regolamento di cui all’articolo 4.  

6. Per l’esecuzione delle verifiche previste dal comma 5, il Ministero dello sviluppo economico può chiedere l’assistenza di altre pubbliche amministrazioni mediante convenzioni o accordi non onerosi con altri soggetti della pubblica amministrazione competenti in materia di condizioni di lavoro. Gli accertamenti possono anche essere fatti mediante sopralluoghi dei siti di produzione o di successiva manipolazione dei prodotti, audizione dei soggetti, sia italiani che stranieri, informati sui fatti, sui rapporti dell’OIL, sui rapporti delle organizzazioni sindacali, nazionali ed internazionali, sui rapporti delle associazioni italiane ed estere, sugli studi dei centri di ricerca, sui servizi stampa e rapporti di altre istituzioni internazionali.  

7. L’iscrizione all’Albo è requisito necessario per accedere a qualsiasi contributo o incentivo statale nonchè per l’impiego del marchio “Made in Italy”, di cui all’art.1 della legge 8 aprile 2010, n.55.  

8. Alle spese necessarie per il funzionamento dell’Albo e all’esecuzione delle connesse attività di sorveglianza si provvede mediante contributi a carico delle imprese richiedenti l’iscrizione, stabiliti annualmente con decreto del Ministro dello sviluppo economico, sentito il Ministro dell’economia e delle finanze. Una quota annuale dell’introito, stabilita con il medesimo decreto, è destinata a campagne d’informazione sui contenuti della presente legge e sul significato del marchio di conformità sociale di cui al comma 2.  

ART. 4 (Regolamento di attuazione)  

1. Le disposizioni necessarie per l’attuazione della presente legge sono adottate con regolamento emanato, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro degli affari esteri, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge.

 

Articolo 5 (Sanzioni)  

1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque produce, importa o commercia prodotti in violazione delle disposizioni di cui all’articolo 1, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100.000 a 1 milione di euro. È disposta altresì l’interdizione dall’attività commerciale e di importazione per un periodo da un mese fino a cinque anni. Si applicano il sequestro e la confisca delle merci, delle somme ricavate dalla loro vendita, dei beni strumentali e delle attrezzature.

2.  L'impresa che violi le disposizioni di cui all'articolo 1, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 2 milioni di euro. È disposta altresì la sospensione dell’attività commerciale per un periodo da un mese fino a cinque anni. La sanzione amministrativa pecuniaria è raddoppiata e il periodo di chiusura dell’attività è triplicato in caso di reiterazione della violazione, ovvero qualora questa sia commessa da un’impresa o in relazione ad un prodotto iscritti nell’Albo di cui all’articolo 3. 

3.  Se le violazioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo sono commesse reiteratamente per più di due volte, si applica la pena della reclusione da uno a tre anni. Qualora le violazioni siano commesse attraverso attività organizzate, si applica la pena della reclusione da tre a sette anni.  

4. L’impresa che stipula accordi in violazione dell’articolo 2, comma 1, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100.000 a 1 milione di euro.  

5. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque cede beni immobili, aziende e rami d’azienda, beni mobili, beni strumentali ad un'impresa in violazione del divieto previsto dall'articolo 2, comma 2,  è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 50.000 a 500.000 euro. La condanna con provvedimento definitivo ovvero l’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, anche se è stata concessa la sospensione condizionale della pena, comporta la confisca dell'immobile, del bene mobile o del bene strumentale, salvo che appartenga a persona estranea al reato.  

6. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque cede beni immobili, aziende e rami d’azienda, beni mobili, beni strumentali a un'impresa in violazione del divieto previsto dall'articolo 2, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 200.000 euro. Nel caso di violazione amministrativa, qualora la cessione sia stata effettuata ad un’impresa non iscritta all’Albo di cui all’art. 3, la responsabilità del cedente sull’impiego illecito di cui all’art. 2 comma 3 viene presunta salvo prova contraria.  

7. Chiunque, in comunicazioni commerciali o rivolte al pubblico, dichiara falsamente che un’impresa o un prodotto sono iscritti all’Albo di cui all’articolo 3 o ne impiega il marchio senza avervi titolo è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da 50.000 a 500.000 euro. In caso di reiterazione della violazione, la sanzione amministrativa pecuniaria è raddoppiata.  

8. Nell’articolo 25-quinquies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, dopo il comma 1, sono inseriti i seguenti:  

“1-bis. Alle imprese che stipulano accordi commerciali, di cooperazione o di coproduzione con imprese, aventi sede in Italia ed in altri Stati che si avvalgono di lavoro forzato, come definito ai sensi della Convenzione OIL n. 29 del 1930 concernente il lavoro forzato od obbligatorio, resa esecutiva dalla legge 29 gennaio 1934, n. 274, si applica la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote.  

1-ter. Alle imprese che, in comunicazioni commerciali o rivolte al pubblico, dichiarano falsamente che l’impresa stessa o un prodotto di essa sono iscritti nell’Albo nazionale dei prodotti realizzati senza l’impiego di lavoro forzato e delle relative imprese produttrici, ovvero ne impiegano il marchio senza avervi titolo, si applica la sanzione pecuniaria da duecento a ottocento quote”.  

ART. 6 (Strumenti di controllo)  

1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 3, comma 5, i controlli relativi all’attuazione delle disposizioni della presente legge sono effettuati dal Ministero dell’economia e delle finanze, dalle autorità doganali e dalle Forze di polizia.  

2. Su segnalazione delle autorità di cui al comma 1 ovvero, in relazione a quanto disposto dall’articolo 3, comma 5, del Ministero dello sviluppo economico, il Ministero degli affari esteri può chiedere alle autorità di Stati stranieri interessati di accertare che nella produzione di merci importate o di cui si richiede l’introduzione nel territorio nazionale non sia stato impiegato lavoro forzato, e in schiavitù ovvero di procedere all’ispezione dei siti di produzione e di trasformazione delle merci che si sospetta siano state prodotte mediante l’impiego di lavoro forzato, e in schiavitù.