Il Pd punta il dito sui poliziotti infiltrati ma non sui black block

 

 

di Piero Laporta  

È gravissimo che esponenti del Pd insinuino che la responsabilità dei crimini espressi dal corteo di martedì a Roma, sia colpa degli infiltrati della polizia.  


Gravissimo ma non inspiegabile. Essi sanno bene, per aver impiegato gli infiltrati in passato nelle manifestazioni della Casa della Libertà e persino, in talune occasioni, a piazza San Pietro, che l'impiego di infiltrati durante manifestazioni suscettibili di degenerare, come questa da loro stessi organizzata, sono opportune prima che doverose.  

Il poliziotto mescolato ai facinorosi indica ai suoi colleghi le violenze più pericolose, le possibili degenerazioni, le tattiche più opportune per prevenire.  

In altre parole compie un lavoro pericoloso e di grande rilievo per evitare il peggio. Inoltre, l'autocontrollo di quel finanziere bravissimo a non sparare nonostante il grave pericolo che correva, ha evitato il peggio e taluni promotori della manifestazione teppistica si mostrano delusi.  

Scandalo nello scandalo, costoro calunniano le polizie, incuranti d'essere parlamentari che guadagnano dieci volte lo stipendio di quegli agenti.  

Ancora più grave che i sindacati di polizia e i Cocer tacciano intimiditi da cosiddetti onorevoli in preda a nostalgie sessanttottarde.  

Quando nei commenti di Rai3, l'Unità, il Manifesto e via infiltrando, si lascia intendere che colui il quale ha aiutato il finanziare assalito da uno sciame di terroristi «non può che essere un infiltrato», si fa un'involontaria doppia ammissione. Primo. Si esclude che vi siano manifestanti pacifici e pronti a un comportamento civile verso un agente in difficoltà. Secondo. I promotori del corteo sapevano della presenza di delinquenti pronti a tutto e non hanno collaborato con le forze dell'ordine.

Resta il fatto, evidente a chiunque abbia un minimo di esperienza militare e di manifestazioni di piazza, che le centinaia di delinquenti, nascosti nella mandria in corteo e fuoriusciti a comando dalle sue fila, erano dotati di ottimo addestramento, sapevano dove cogliere gli oggetti da tirare (e dunque il percorso del corteo era stato stabilito con lungimiranza), avevano preconfezionato degli ordigni efficaci e, soprattutto, si muovevano in singolare sincronia col grosso del corteo «pacifico».  

La quantità dei delinquenti, il loro sincronismo, la puntualità con la quale rispondevano i loro compagni dalle retrovie, dalle vie circostanti e dalla parte «pacifica» del corteo, sono altrettante certificazioni che la violenza era pianificata e organizzata entro la manifestazione «pacifica».  

Resta da capire quanto della parte «pacifica» del corteo fosse «pancia» e quanto «cervello». Se gli «infiltrati» fossero stati artefici delle violenze sarebbero entrati in contatto con chi guidava il corteo e, allo stesso tempo, avrebbero dovuto avere una leadership sulle centinaia dei delinquenti violenti, la cui sincronia è segno d'una linea di comando e controllo ben sperimentata e conosciuta al loro interno.  

I giornali che riducono tutta la violenza criminale del corteo a un paio di cerchietti rossi sulle foto dei poliziotti, rievocano le superficialità che favorirono il terrorismo e prolungano al giorno dopo le complicità costituitesi altrove per tornare alla guerriglia, le cui origini e le cui modalità sono professionalmente note a quanti siedono in parlamento per benemerenze violente o proditorie più o meno recenti.