Olga e tutte le sorelle che "se la sono cercata". La Nuova Bussola Quotidiana del 10 Settembre 2014

 

 

 

Sarà come dice padre Mario Pulcini, Superiore dei Saveriani a Bujumbura, che non crede in una strage nata dall’odio verso la religione e contro quelle tre povere suore italiane.


Loro erano venute in Burundi a portare la speranza, soprattutto quella cristiana, in quel pezzo dell’Africa tormentato da feroci violenze, massacri tribali, fame e povertà. «I musulmani», dice il Superiore, «sono appena il 10 per cento della popolazione. Conviviamo pacificamente. C'è tanta povertà e violenza. I giovani sono allo sbando, non vanno a scuola, non hanno lavoro». Speriamo che sia davvero così, ma uccise in nome del jihad o per una rapina senza bottino, le cose non cambiano. Olga Raschietti, 83 anni, Lucia Pulici, 76 anni e Bernadetta Boggian, 79 anni, trucidate nel loro convento della missione di Kamenge situato nella zona nord della capitale del paese, Bujumbura, sono altre tre martiri che si aggiungono alla già lunga lista dei testimoni cristiani, uomini e donne, religiosi e laici, che hanno pagato il prezzo delle fede con il loro sangue.

Nel 2013, rivela l’agenzia Fides, sono stati 23 i missionari uccisi, quasi il doppio rispetto al 2012. Si tratta di 20 sacerdoti, 1 religiosa e 2 laici. La maggior parte degli omicidi si è consumata in America, dove sono stati ammazzati 15 sacerdoti: 7 in Colombia, 4 in Messico, 1 in Brasile, 1 in Venezuela, 1 a Panama e 1 ad Haiti. Per quanto riguarda l’Africa, sono stati assassinati 1 sacerdote in Tanzania, 1 religiosa in Madagascar, 1 laica in Nigeria. Ci sono da aggiungere poi gli omicidi avvenuti nel resto del mondo, in Asia e in Europa, vale a dire 1 sacerdote in India, 1 in Siria, 1 laico ammazzato nelle Filippine e 2 preti uccisi, uno in Italia e l’altro in Ungheria.

Le tre religiose italiane in Burundi avevano fondato un centro per i giovani, nell’impresa eroica di dimostrare che una convivenza tra tribù diverse era possibile, sfidando l’antico odio tra Hutu e Tutsi, le due etnie responsabili dei più atroci eccidi nel Continente africano. Rapina o assassinio in nome di qualche Dio, poco importa (la verità, se sarà possibile arrivarci, è ora faccenda di polizia), ma è la domanda sul senso della morte, e dunque della vita di quelle tre sorelle che dal Burundi arriva fini a noi. Perché una ragazza (e loro lo erano quando sono partire dall’Italia) lascia tutto per finire lì, tra i disperati del mondo, in un villaggio nel cuore dell’Africa, in India, in Colombia o nel Bangladesh?

Sono suore, e questo potrebbe bastare a trovare una risposta, in fondo accomodante: l'avevano messo in conto un finale così quando hanno lasciato la famiglia per infilarsi nelle tenebre della guerra e della fame, in quei Paesi dove massacri, esecuzioni e decapitazioni sono spettacolo quotidiano, uomini che si sbranano per un niente, come gli animali feroci dello loro foreste. Normale, allora, che prima o poi un prete o una suora finiscano come sono finite le tre sisters saveriane: letteralmente “se la sono cercata” e lo possiamo dire senza correre il rischio di essere accusati di cinismo. Perché è vero, drammaticamente ma evangelicamente vero, che suor Olga, Lucia e Bernadetta “se la sono cercata”. Lì, a Bujumbura (nome che pare uscito da una barzelletta), loro hanno scelto di andarci, si sono preparate per anni, sapevano delle stragi tra Hutu e Tutsi, dei sacrifici umani. Da più di 50 anni erano sul fronte della missione, avevano corso rischi ma l’avevano scampata, angeli del Vangelo tra gente che all’inizio non deve averle certo accolte a braccia aperte. Olga è arrivata in Burundi dopo più di 40 anni trascorsi nella Repubblica Democratica del Congo. Suor Lucia, infermiera e ostetrica, era stata in Brasile e poi spedita in Burundi. Bernadetta, anche lei aveva lasciato il Congo per Bujumbura, sette anni fa. Insomma, mica ragazzette alle prime armi.

É per questo, forse, che oggi la loro morte atroce solleva certo orrore e pietà, ma verrebbe da dire, a “bassa intensità”. Troppo composti e silenziosi per essere veri. Nessuna prima pagina di nessun giornale tutta per loro, nessun filmato mandato e rimandato con ripetizione ossessiva a ogni Tg per non farci dimenticare i loro volti. Com’è successo invece con i due reporter decapitati dai tagliagole del Califfato islamico. Nessuna fiaccolata, marcia di protesta, veglia di preghiera o laica sottoscrizione com’era stato per Vanessa e Greta, le due ragazzine rapite dagli stessi guerriglieri che le tenevano sotto "protezione", sparite nel nulla nell’inferno siriano. Ma loro sono volontarie, carine, generose, con la foto su Facebook e, soprattutto, giovani. Magari incoscienti fino alla stupidità, però a fin di bene. E questo basta e avanza a zittire ogni voce di dissenso e di buonsenso. Olga e le sue sorelle, erano suore, per giunta anziane, poco fotogeniche e senza amici sui social network. Ma soprattutto, “se la sono cercata”.

«La mia vocazione è l'Africa», diceva sempre suor Olga. Ecco la parola giusta, “vocazione” se si vuole capire qualcosa del sacrificio, ma soprattutto dell’esistenze di quelle tre ragazze, cresciute, invecchiate e morte in missione. E di quelle che come loro oggi spendono la loro vita nelle missioni nei luoghi più disgraziati della Terra, a testimoniare la chiamata (cioè la vocazione) di Cristo nella concreta dedizione all’uomo, a persone che hanno bisogno di tutto, di cure mediche, di cibo, di futuro, ma soprattutto di una speranza di vita che non è quella di cui parlano statistiche della Fao o della Banca Mondiale. C’è un popolo che ha fatto questa strana scelta: missionari, sacerdoti, religiosi e suore che vivono lì dove nessuno ci andrebbe senza essere pagato con cifre a sei zero, o per tentare la fortuna con l’Isola dei Famosi. Ma oggi anche questo popolo si sta assottigliando: dopo il boom degli anni ’60, le vocazioni hanno iniziato a scarseggiare. L’Italia detiene ancora il primato della presenza missionaria nel mondo, ma è in pieno crepuscolo.

Secondo i dati della Santa Sede, l’oltre milione di suore nel mondo del 1970 era sceso a 82 mila nel 2001 ed è oggi ottimisticamente circa la metà. I missionari italiani, invece, oggi sono circa 10 mila. Sono in Africa, Asia America Latina, Oceania, ma anche nella vicina Europa, divenuta anch'essa “terra di missione”. L'età media di chi ha scelto di partire si è alzata con il tempo: oggi è di 63 anni. Pochi i giovani e soprattutto un trend in costante calo dai primi anni '90, quando si toccò il record di 20mila presenze di missionari italiani all'estero. Stando ai dati degli archivi storici, nel 1934 l'Italia aveva 4.013 missionari, nel 1943 erano 7.713, nel 1954 più o meno quanti ce ne sono oggi, 10.523, fino a toccare i 16.000 negli anni Ottanta, e oltre 20.000 nel 1991. A partire da allora il calo. Ma nel calo generale è la componente dei religiosi e delle religiose che si è assottigliata negli anni, forse anche a causa della generale crisi vocazionale. Mentre il numero di laici che vengono inviati dalla Chiesa lontani dalle loro case è in costante aumento e anche la loro età media è decisamente più bassa: il 58% è sotto i 40 anni e meno di uno su 4 ha superato la soglia dei 50 anni. Quasi il 56% sono donne e il 60% è sposato. Tanti partono con il coniuge e con i figli. Il 55,7% dei missionari laici è in Africa, il 38,6% in America latina.

Le cifre segnano la crisi, ma non raccontano le meraviglie e i frutti miracolosi di quelle vocazioni missionarie. Storie di infinita gratuità e dedizione quotidiana, che solo una umanità graziata dall’amore di Cristo è capace di offrire. Storie che restano sconosciute e in ombra, inarrivabili alle cronache quotidiane dei giornali, tranne il giorno in cui si chiudono nel modo più tragico. Ma è solo per qualche ora: anche sconcerto e pietà hanno i loro implacabili time-lapse e cronometrate soglie di attenzione. La vita corre, lo show continua. E poi erano solo tre suore, per giunta “se la sono cercata”.

di Luigi Santambrogio

10-09-2014