Storia di Abby, ex manager dell’aborto che un giorno aprì gli occhi reggendo una cannula in sala operatoria

 

 

 

Dirigeva una clinica di Planned Parenthood in Texas quando nel 2009, provocando molto scalpore in America, decise di mollare dopo avere assistito a un aborto


 

La “buona fede” di Abby Johnson crollò come una rocca di carte all’improvviso scatto di un piedino «che cominciò a scalciare come se cercasse di respingere la sonda invasore. Quando la cannula cominciò a far pressione, il bambino iniziò a rivoltarsi e a contorcersi. Mi sembrava chiaro che il feto sentiva la cannula, e che non gli piaceva quello che stava provando. Poi la voce del medico ruppe il silenzio, facendomi trasalire. “Accendi, Scotty”, disse spensieratamente all’infermiera. Le stava dicendo di accendere l’aspiratore». Settembre 2009: Abby Johnson lavora da otto anni con la Planned Parenthood e dirige la clinica di Bryan, nel Texas, dove vengono eseguiti ogni sabato dai venticinque ai trentacinque aborti in giornata, quando viene chiamata a dare una mano in sala operatoria. Quel giorno in clinica c’è un medico che sta compiendo un aborto guidato con gli ultrasuoni e ha bisogno di qualcuno che tenga la sonda.

L’INTRUSO. «Sembra proprio come Grace a dodici settimane», aveva pensato Abby appena catturata l’immagine del profilo «intero e perfetto» del bambino di tredici settimane nella pancia della paziente, il profilo della testa, di entrambe le braccia, delle gambe e perfino delle minuscole dita delle mani e dei piedi. Poi come un intruso nello schermo, una cosa fuori posto e sbagliata, era apparsa la cannula e aveva iniziato ad avvicinarsi al bambino rannicchiato. «Per un brevissimo momento sembrava che il bambino venisse strappato, arrotolato e strizzato come uno straccio. Poi cominciò a scomparire dentro la cannula sotto i miei occhi. L’ultima cosa che vidi fu la piccola spina dorsale perfettamente formata risucchiata nel tubo, e tutto scomparve. L’utero era vuoto, totalmente vuoto».

 UNA LOTTA PERDUTA IN UN ATTIMO. Il tessuto fetale non sente niente quando è rimosso: quante volte e quante donne aveva rassicurato su questo punto come le era stato insegnato alla Planned Parenthood. Ma solo dopo otto anni, e dieci minuti davanti a quello schermo, Abby aveva capito. Tutto ciò che aveva creduto (dare un contributo alla riduzione degli aborti lavorando per l’organizzazione leader nell’offerta di “educazione riproduttiva”), insegnato (battersi per i diritti sanitari e riproduttivi delle donne), difeso (la possibilità di abortire in sicurezza e legalità), era una menzogna. Aveva capito che la verità stava dall’altra parte della cancellata della clinica, dove Marilisa, Shawn Carney, David Bereit davano l’anima alla Coalizione per la Vita, e dall’altra parte del letto, dove dormiva suo marito Doug che sempre aveva chiamato “bambina” quel feto che Abby si era portata in pancia per nove mesi. Soprattutto, aveva capito con orrore il senso di azioni compiute anni prima, quando pensava di non avere alternative. Quel palpitante esserino rannicchiato nel ventre della donna – di tutte le donne come lei – presente quel sabato in sala operatoria, solo “un momento fa” era vivo. «Non erano tessuti, non erano cellule. Era un bambino umano, che lottava per vivere! Una lotta perduta in un batter di ciglia».

I DUE FRONTI. Vale davvero la pena di leggere il libro di Abby Johnson, Scartati. La mia vita con l’aborto, appena edito in Italia da Rubbettino (258 pagine, 16 euro), per la sua storia traboccante di umanità, e quindi di contraddizioni, forse anche insensatezze, ma anche di grande coraggio e verità: «Posso testimoniare che c’è del buono, del giusto e dello sbagliato da entrambe le parti», scrive l’ex manager del colosso degli aborti Usa passata al fronte “nemico”. Proprio a Bryan, Texas, dove Abby dirigeva la “sua” struttura targata Planned Parenthood, un misterioso destino ha voluto che muovesse i primi passi quella Coalizione per la Vita che avrebbe in fretta ispirato la formazione di gruppi simili ovunque negli Stati Uniti. E per Abby in quegli anni la cosa «più scioccante» è che i due fronti divisi dalla cancellata della clinica hanno «molte più cose in comune di quanto possiamo immaginare».

IL TORMENTO. Tuttavia, la verità sta da una parte sola, e non si serve della buona fede o del desiderio di sentirsi preziosi, dal proprio punto di vista, per la vita degli altri. Abby si spende per la “riduzione del numero di aborti” offrendo alle donne che vengono alla clinica contraccettivi e “opzioni”, come un menu: allevare il bambino, darlo in adozione o abortirlo, chirurgicamente o farmacologicamente. E questo nonostante il suo corpo sia già stato straziato dai dolori provocati dall’assunzione della pillola abortiva Ru486: «La verità è che l’aborto era diventato una realtà semplice e normale della mia vita». Si considera cristiana, come quasi due terzi delle donne che secondo l’Istituto Guttmacher, il braccio di ricerca della Planned Parenthood, hanno abortito. E le veglie di preghiera organizzate intorno alla clinica la tormentano. «Da una parte dovevo essere felice di pregare per la fine degli aborti, perché ero favorevole alla loro riduzione. Dall’altra parte non volevo che gli aborti finissero perché in caso di necessità le donne dovevano avere la possibilità di praticarli». In mezzo, spartiacque ideale del libro, c’è la grande cancellata, una barriera fisica e simbolica che separa l’interno della clinica, satura di conflitti e sofferenze di ogni natura, dalla strana cinta esterna, umana e piena di compassione, forgiata dalla Coalizione. Gente che non veste i panni della grande mietitrice che rotea la falce e non sventola foto di feti abortiti, come i provocatori del fronte pro-life della prima ora. Semplicemente prega. E quando parla dice cose tremendamente sensate.

 QUESTIONE DI PERFORMANCE. Quando la informarono che Planned Parenthood stava progettando di aprire a Houston un’imponente clinica di sette piani su 26 mila metri quadrati con un intero piano destinato presumibilmente ai servizi medici e abortivi, Abby aveva già capito molte cose: «Mi resi conto che si sarebbe trattata della clinica più grande a livello nazionale, per la quale si era anche fatta richiesta di una speciale licenza chirurgica ambulatoriale che avrebbe permesso di praticare aborti tardivi fino a 24 settimane». Più l’aborto veniva ritardato più costava: dai 3 mila ai 4 mila dollari circa. I manager di Planned Parenthood chiesero esplicitamente ad Abby di aumentare le entrate provenienti dagli aborti, e quindi il numero degli “interventi”. A tutto questo stava pensando Abby il giorno in cui venne chiamata a reggere una sonda.

LA CONVERSIONE. Otto anni prima, alla fiera del volontariato in università, arruolandosi in Planned Parenthood, Abby aveva preso una posizione che credeva ardentemente giusta, era convinta che quello fosse il suo posto, che da lì potesse fare la differenza, fare del bene a sé e a chi aveva bisogno. Poi entrò in quella sala operatoria e finalmente aprì gli occhi. Non solo su quel prezioso bambino non ancora nato e sacrificato violentemente “in buona fede”, ma sulla trappola in cui era caduta, la trappola di Planned Parenthood: «Allineandomi a un’organizzazione che praticava gli aborti, mi ero condannata a fare proprio ciò che dicevo di voler ridurre». Quello che accadde dopo è una lunga storia di conversione e passione: la storia di una donna che finì in tribunale per difendere davanti a una corte il proprio cambiamento, la verità a cui era approdata spogliandosi di tutto quello che aveva guadagnato, costruito, professato. E vale davvero la pena di leggere fino alla fine questa storia, leggere cosa accadde dopo quel giorno – quell’orribile, devastante, sorprendente e illuminante giorno – in cui Abby passò per sempre al lato giusto della barricata.

Edito da Tempi.it  Aprile 15, 2015 Caterina Giojelli

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