Convegno per i Dirigenti Scolastici: "L’Emergenza Educativa: Didattica e Valori"

Si parla di emergenze educative, di crisi, di frattura generazionale. Queste le colpe, ma i colpevoli chi sono? Si dice che i giovani di una volta erano diversi e che quelli di oggi sono particolarmente inclini non solo a distruggere (tradizioni, valori, etc..), ma anche ad autodistruggersi (droga alcool, nichilismo). Ma se si riflette risulta chiaro come essi non siano la causa ma l’effetto: essi sono ciò che la generazione precedente ha prodotto.

Occorre dunque soffermarsi non sui ragazzi di oggi ma sui loro "presunti" educatori. Due errori si sono commessi:

  • Credere che valori, morale, tradizioni fossero catene dalle quali con solerzia abbiamo ‘liberato" i nostri figli non accorgendoci che erano invece "cordoni ombelicali" che nutrivano i nostri figli così come hanno nutrito noi.
  • Credere che tale nutrimento potesse perpetuarsi da solo, in qualche modo accumularsi. Invece come sempre nuova è la libertà dell’uomo così sempre nuovo deve essere l’alimento. Sempre nuovo deve essere l’atto educativo.

Il primo errore è proprio di chi ha un approccio alla realtà ideologizzato. Nega infatti la realtà e la sostituisce con schemi innaturali partoriti dalla propria fantasia insomma senza fondamento. E proprio questa mancanza di fondamento provoca l’implosione e il fallimento della ideologia come una costruzione che non può reggersi. L’ideologia è un difetto e non un effetto dell’educazione.

La verità è dunque ineluttabile, possiamo fare finta che non esiste e vivere una vita di illusioni, ma presto o tardi ne pagheremo il prezzo e ne faremo pagare gli interessi ai nostri figli: le illusioni producono illusi, poi delusi, infine disperati.

Possiamo sostenere che la vita non ha senso o ne ha uno diverso, preso in prestito dal cattivo maestro di turno, ma se trasmettiamo ai nostri figli che la vita non ha senso o ne ha uno diverso dal reale perchè stupirsi se arriveranno a negare la vita, la loro stessa vita. La venderanno o la svenderanno, la disprezzeranno o forse la esalteranno credendola un baccanale, consumandola in niente, ma alla fine la perderanno.

Il secondo errore è di chi ha trascurato di rinnovare il proprio impegno educativo non pensando che l’educazione viene veicolata a nuovi uomini da nuovi educatori. L’atto educativo è un atto sempre nuovo che veicola i valori di sempre connaturati all’ uomo stesso.

L’educazione risponde alla domanda circa il modo ed il perché si debba vivere, tale risposta dunque non può che venire dal reale cioè dalla verità.

L’educazione è propria dell’uomo in quanto essere libero, chi non è libero non abbisogna di educazione poiché il suo agire è una semplice sequenza di atti necessari e necessitati. educazione è esercizio di libertà.

Detto questo emerge con chiarezza l’importanza del sostegno da parte delle istituzioni alle agenzie deputate allo svolgimento del compito educativo secondo la loro naturale gerarchia e dunque in base al principio di sussidiarietà.

La prima agenzia alla quale compete il compito educativo è senza dubbio la famiglia, prima forma di società che il bambino incontra, luogo privilegiato di iniziazione personale e sociale dove ogni atto educativo è atto di amore. In essa L’autorità, secondo il suo senso etimologico di capacità di far crescere (dal latino augere), si manifesta in modo originale e primario.

Ma la famiglia non è una società perfetta nel senso che non è in grado di bastare a se stessa, questo apre, secondo il principio di sussidiarietà, alla collaborazione tra famiglie nella prospettiva di società maggiori, via via soddisfacenti esigenze più complesse, fino alla società ‘perfetta", lo Stato, perfetto in quanto tale da soddisfare, in tesi, tutte le esigenze naturali dell’uomo. Quindi in questo senso lo stato gestisce l’istruzione ed il sistema scolastico come importantissima condizione del bene comune.

La scuola, da quella dell’infanzia all’università, è il luogo dove la società conserva, trasmette e arricchisce quei saperi (competenze/conoscenze) che giudica essenziali ed importanti per la promozione umana. La scuola accoglie così, continuamente, una eredità come ipotesi di interpretazione della realtà in un continuo processo di analisi e valutazione, alla ricerca di quanto merita di essere conservato.

Parlando di educazione ho fatto riferimento al termine Realtà e Verità poiché non c’è crescita se non si adegua il compito educativo alla realtà. Infatti, se la verità (che è realtà) non esiste o non è conoscibile perché allora studiare? Su cosa sarò valutato? Forse sulla mia capacità di ripetere le opinioni di qualcun altro? Rinunciare alla verità, rende insensata la scuola perché autoreferenziale cioè luogo in cui si presentano, discutono e impongono opinioni che non aiutano a comprendere la realtà. La scuola diventa strumento del potere in mano ai totalitarismi. Non è un caso che nel 1789 la rivoluzione cosiddetta francese si occupò molto della istruzione non per scopi istruttivi come falsamente viene ripetuto anche dai nostri testi scolastici.

Rousseau nel suo contratto sociale afferma che "Colui che osa prender l ‘iniziativa di fondare una nazione deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana di trasformare ogni individuo".

Morelly nel suo "codice della natura" (1755) sostenne la necessità che i "bambini all ‘età di cinque anni siano tolti ai loro genitori ed educati a spese dello stato e secondo linee comuni ".

Dunque la rivoluzione cosiddetta francese, dopo un primo periodo di disinteresse dalla scuola, prese coscienza di quel formidabile strumento di controllo che poteva diventare tanto che fu progettato un programma assai pervasivo e violento fitto di "frequenti ispezioni e di produzione di testi repubblicani. Danton sostiene che: "i bambini appartengono alla repubblica più che ai loro genitori ".

In Italia, caratterizzata da una società profondamente diversificata, i riformatori radicali si ispirarono ai giacobini francesi, videro nella scuola un mezzo per costruire artificiosamente e ideologicamente un popolo.

Ecco perché la verità rende liberi. La verità ci porta sul sentiero del dialogo e non su quello della intolleranza come spesso si sostiene. Cercare la verità significa cercare il senso proprio della vita in modo collaborativo e mettere in comune quanto si è compreso, questo è il senso originario della parola comunicare.

Senza una condivisione di senso, di origine e di fine la vita sociale degenera in conflitto.

La scuola può svolgere un mirabile compito di recupero dei valori e ai valori, può trasmettere amore per il bene comune per la costruzione di un vero senso civico, può fare comprendere come le leggi e la legalità in genere si fondano su valori autentici poiché una norma non ancorata ad un fondamento di verità è una norma debole come debole è la nostra società.

Giuseppe De Rita (ha ricoperto numerosi incarichi: funzionario della Svimez, è tra i fondatori del Censis, presidente del Cnel, Presidente della casa editrice Le Monnier) ha definito (corriere della sera, 25 agosto 2007) la nostra società "una società a coriandoli sempre più sparpagliata, spezzettata .... Non la si può più studiare se non antropologicamente".

Nel 41° rapporto annuale sulla situazione sociale del paese realizzato dal Censis si legge: "... Lo sviluppo non filtra sia perché non diventa processo sociale, sia perché la società sembra adagiarsi in quell’inerzia diffusa che è antropologica senza storia, senza chiamata al futuro".

Una realtà ambigua, senza rilievi e contorni di tipo sociologico e politico, piattamente detotalizzata, e quindi sfuggente a ogni schema e sforzo interpretativo. Una realtà:

  • che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa;
  • che inclina pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio, creato e supportato da un intelletto anonimo, di nessuno, tanto che non se ne possono neppure decifrare le responsabilità;
  • che in modo più o meno cosciente inverte i processi-simbolo che ci hanno reso orientati allo sviluppo e spegne quindi il "vitale", quasi fosse un resto arcaico in una società che non accetta più tensioni e diversità di destino sociale.

Si tratta di tre affermazioni che sembrano anche semanticamente provocatorie, ma che hanno dentro delle verità che è giusto analizzare e non sorvolare per pavida rimozione o per cinico svicolamento nelle tante retoriche di oggi.

Al termine poltiglia di massa si può (con eleganza minore) sostituire il termine più impressivo di "mucillagine", quasi un insieme inconcludente di "elementi individuali e di ritagli personali" tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni.

E’ noto che la frammentazione progressiva di tutte le forme di coesione e appartenenza collettiva ha creato una molecolarità che è stata una forza di sviluppo economico e imprenditoriale. Ma noi stessi che di quella molecolarità siamo stati cantori abbiamo potuto e dovuto constatare che essa sta creando dei "coriandoli quali stanno insieme (meglio sarebbe dire "accanto") per pura inerzia, per appagato imborghesimento, per paura di tornare indietro, magari mitridatizzata da una sempre più generalizzata volgarità plebea".

La caratteristica fondamentale dei "ritagli umani" senza identità è la dispersione del se, nello spazio e nel tempo collettivo. Nello spazio, per la vittoria irresistibile dalla soggettività esasperante in ogni comportamento, senza attenzione al momento della relazione e della convivenza. Nel tempo, per il declino irresistibile dell’attenzione su un tema, un problema, un fenomeno (Carlo Emilio Gadda riteneva dispersiva un’attenzione radiofonica di 12 minuti, cosa direbbe oggi che siamo scesi forse intorno ai due?). Con i ritagli non si costruisce un tessuto sociale: così abbiamo, sul piano individuale, bolle di aspirazioni senza scopo e senza mordente e, sul piano sociale, deboli connessioni, smorte forme di aggregazione e inanimati simulacri dei processi di coesione che furono.

- In questa situazione strutturale non può sorprendere quella sensazione dì continua inclinazione al peggio che attraversa quotidianamente l’opinione degli italiani, indotta e supportata anche da contenuti e toni della comunicazione di massa.

Dovunque si giri il guardo - sembra pensare l’italiano medio facciamo esperienza e conoscenza del peggio: nella politica come nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità urbana come in quella organizzata, nella dipendenza da droga e alcool come nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie come nello smaltimento dei rifiuti, nella ronda dei veti che bloccano lo sviluppo infrastrutturale come nella bassa qualità dei programmi televisivi. E abituale allora ricavarne che viviamo una disarmante esperienza del "peggio". Così come afferma Emilio Rossi, Presidente del comitato per l’applicazione del codice TV e minori diventerà Media e Minori (La Sicilia 20.02.08) "Si pensi – ha aggiunto Emilio Rossi – che in televisione, nei notiziari e programmi di approfondimento, si è verificato che in una edizione, su 20 servizi 14 erano di cronaca nera. E’ come se un quotidiano di 88 pagine ne dedicasse 64 alla cronaca nera. Questo non può essere perché in tv le immagini hanno un impatto superiore rispetto alle notizie sulla carta stampata". Settore per settore "nulla ci è risparmiato", tant’è che vincono sull’antropologia collettiva i fattori regressivi anche se non avvertiti in modo sempre cosciente:

- vince una diffusa povertà psicologica, perché la dispersione del sé rende labile l’approccio individuale a ogni fenomeno sociale e a ogni relazione interpersonale;

- vincono quindi le pulsioni in genere frammentanti e non le passioni tendenzialmente unificanti e tanto meno, vincono gli atteggiamenti razionali, come è possibile constatare guardando in controluce le vicende meno esaltanti degli ultimi tempi;

- se vincono le pulsioni, tracima senza argine la rincorsa alle presenze, quasi a far coincidere la pulsione, anche la più stralunata, di presenza con l’unica esistenza desiderabile;

- la coazione alla presenza porta a quel primato dell’emozione esternata, del masochismo ansiogeno. Cosi la vuota presenza consuma le radici stesse dell’esistenza;

- l’incessante attività comunicativa, giocata sulla comune strategia di rispecchiare emozioni e drammatizzazioni del proprio pubblico, induce a una monotonia dei messaggi e del linguaggio e restringe la pluralità dei codici comunicativi. Il mondo diventa null’altro che la sua rappresentazione: ci si adatta a vivere in un nirvana virtuale ma fragoroso (forse per dimenticare noia e sonnolenza);

- "se è così, non è peregrina l’emersione di nuove malattie dell’anima", direbbe qualcuno. Finisce comunque in secondo piano l’intenzionalità, anche individuale e specialmente quella sociale e politica. Le intenzioni più ambiziose, poi, finiscono per arroccarsi nella speranza di non regredire e sparire.

Di questa costante inclinazione al peggio tutti avvertiamo i singoli episodi ma non cogliamo il senso strutturale. Restiamo prigionieri della sorpresa che gli episodi ogni volta ci portano dentro senza capire quale sia il meccanismo globale alla loro base e quali armi di contrasto abbiamo già o, più verosimilmente dobbiamo elaborare.

In proposito, si può avanzare l’ipotesi che l’inclinazione al peggio della nostra mucillagine sociale sia dovuta, nel profondo, a un lasciarsi andare in tanti "ritagli umani", senza adeguati punti dì riferimento, o simboli collettivi. Si può pensare, citando Melanie Klein, che "sia in corso una inversione del processo di simbolizzazione o più esattamente un processo di sublimazione una società che si era costruita su grandi riferimenti simbolici si ritrova oggi a doverne constatare la corrosiva desublimazione, il loro regredire di senso. La Patria diventa interesse collettivo più che identità nazionale; la Religione diventa religiosità individuale; la Libertà diventa imperfetto possesso del se; il Popolo diventa moltitudine di massa; la Famiglia diventa contenitore di soggettività a moralità multiple; la Ragione diventa petite raison; il Lavoro diventa un’operazione di secondo livello rispetto all’arricchimento facile con mezzi facili; l’etica diventa un elenco di indicatori di social responsability, la Passione si sfarina in pulsioni; il valore della parola si grattugia in parole tanto eccitate ed ebbre quanto prive di contenuto o messaggio".

Nessuno può negare che l’inversione del processo di simbolizzazione è figlia anche di processi culturali e storici che hanno liberato i singoli da antiche prigionie comportamentali e da antiche minorità valoriali. In altri termini, sono la conseguenza di processi che hanno democratizzato la vita collettiva, riducendo anche i poteri-custodi, spesso interessati, dei grandi simboli. Ma non si può al tempo stesso negare che tale inversione è madre dì un meccanismo socioculturale che – nella corrosione progressiva dei simboli – non forma più idee comuni, convergenze sociali, progetti politici. E non saranno verosimilmente i riti che richiamano in piazza antiche identità o improvvisati banali assemblaggi che potranno provvedere a nuove condensazioni valoriali. Nella massa pastosa di coriandoli il collante, come si è visto, è di basso profilo.

Antropologia senza storia e senza chiamata al futuro. Siamo davanti ad un uomo senza passato e senza futuro, un uomo fatto di pulsioni, insomma un uomo nudo. Dice Gomez Davila "il futuro sarà un insieme di schiavi senza padroni". Ovvero l’errore istituzionalizzato: quando qualcosa è giuridicamente lecito presto o tardi sarà anche moralmente lecito.

Manca la capacità di rappresentanza, quella vera, quella capacità di essere espressione di una comunità portatori di valori comuni e condivisi, il corpo sociale è diventato un insieme di singoli.

C’è il leaderismo fondato sul carisma personale poiché si è perso il carisma dei Valori, in altre parole non ci si trova uniti da valori comuni e condivisi. In tale panorama l’unica aggregazione possibile è quella fondata sulla moda del momento, ciò che oggi può aggregare domani sarà dimenticata. Non rimane che ricostruire.

Cosa? VALORI e TRADIZIONE per esempio. E vi lascio con questa riflessione. Cosa è per me la tradizione?

La tradizione è la saggezza lucrata dai nostri padri. Essa deve essere per noi, fonte di investimento per le generazioni future. Mai più l’idea di percepirla come arcaico retaggio di tempi oscuri!".