La "conquista del Sud" e l’unita d'Italia

(tratto da "Il Corriere del Sud" n°1/2005) - II fenomeno del "brigantaggio" in una ricerca storica patrocinata dall'Assessorato ai Beni Culturali e Pubblica Istruzione della Regione Sicilia

Se siamo briganti, quel governo che sforza tutto un popolo a briganteggiare è perverso». Così scriveva alla fine del 1861, da Roma dove era stato costretto all'esilio, lo storico e letterato napoletano Giacinto de' Sivo (1814-1867), nel suo prezioso opuscolo "I Napoletani al cospetto delle nazioni civili" (II Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 1998). Si riferiva alla propaganda dell'appena proclamato "Regno d'Italia" a proposito della natura e motivazioni delle insurrezioni popolari che, in tutto il Mezzogiorno, si stavano nuovamente opponendo (dopo, cioè, i lunghi anni dell'Insorgenza antigiacobina ed antifrancese scatenatasi dopo il 1796, in seguito all'invasione napoleonica della Penisola) ad un "nuovo ordine" che, imposto con la forza delle armi, pretendeva di azzerare bimillenarie tradizioni civili e religiose.

Ottima occasione per ricordare e riflettere sugli episodi e le ingiustizie che sono state all'origine della "risorgimentale" unità d'Italia, è la nuova edizione (la seconda, integrata e rivista dall'Autore, rispetto a quella del 2004) del saggio dello storico meridionale Francesco Pappalardo, "Il brigantaggio postunitario.

Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione" (Con una Prefazione di Oscar Sanguinetti, D' Ettoris Editori, Crotone 2005, pp. 131), pubblicato grazie al contributo dell'Assessorato ai Beni Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Siciliana. Iniziativa, quest'ultima, che merita senz'altro un plauso se, come evidenzia nella sua Presentazione (pp. 5-6) lo stesso Assessore ai Beni Culturali e della Pubblica Istruzione della Sicilia, On. Alessandro Pagano, nel nostro Paese «Le polemiche sul revisionismo storico in generale e sul Risorgimento in particolare hanno attirato finalmente l'interesse del grande pubblico su argomenti d'importanza non secondaria per la storia d'Italia, nell'oblio fino a pochi anni fa — come il tema della grande Insorgenza antigiacobina e antinapoleonica (1796-1814) — o affrontati in modo mistificatorio da parte della storiografia egemone, come il tema della resistenza popolare al Risorgimento.

A quasi 150 anni dall'unificazione la ricerca scientifica sta offrendo una lettura del "brigantaggio" molto più articolata, riconoscendone il carattere di assoluta novità rispetto agli episodi di criminalità comune che avevano interessato il Mezzogiorno d'Italia in altre epoche» (p. 5).

E' quanto sostenuto da Oscar Sanguinetti, direttore dell' Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale (cfr. il nuovo sito dell'ISIIN: www.identitanazionale.it), fin dalla sua Prefazione (pp. 7-13) al saggio di Pappalardo, nella quale spiega come il cosiddetto "brigantaggio", lungi dall'essere «null'altro che un mero fenomeno di criminalità organizzata» (p. 7), come vorrebbe far credere invece la vulgata "risorgimentista", costituisce piuttosto «un intreccio di processi storici assai complesso, che... richiede molteplici categorie di lettura mutuale dalla sociologia della religione e delle culture, dalla storia del folklore, dalla storia delle idee, delle credenze e dei simboli» (p. 10).

L'unificazione forzata della penisola italiana, avvenuta manu militari nel decennio che va dal 1859 al 1870, suscita infatti un po' ovunque nella Penisola resistenze e reazioni. In particolare però questo accade nel borbonico Regno delle Due Sicilie dove, come ben documenta il saggio di Pappalardo, la lotta armata contro l'invasore piemontese assume proporzioni straordinarie: «Questo comportamento valoroso, definito sbrigativamente "brigantaggio" dai vincitori, viene censurato e deformato per oltre un secolo, perché nella costruzione dell'immagine "epica" del Risorgimento non poteva esservi posto per alcuna forma di resistenza e dunque la reazione della popolazione del regno è stata letta per lungo tempo come una parentesi spiacevole da liquidare frettolosamente» (p. 19).

Quello che ai nostri studenti è ancora insegnato come il "brigantaggio meridionale postunitario", è presentato invece da nuovi studi come quello di Pappalardo come un fenomeno nuovo e diverso, tanto in relazione all'endemico banditismo italico del 1700-800, quanto riguardo allo stesso "movimento sanfedistico" del 1799, guidato contro la .giacobina "Repubblica Partenopea" dal cardinale Fabrizio Ruffo ( 1744-1827), rispetto al quale ebbe contorni più vasti e profondi.

Eppure gli "illuminati" che con le brutalità dell'esercito sabaudo hanno costretto nel 1861 i popoli italiani ad una unione che non condividevano, e quindi non volevano, non potevano neppure concepire come le loro tanto (auto)magnificate gesta potessero essere rifiutate, o addirittura potesse esserci degli intenzionati ad opporsi loro impugnando le armi. «Solo un criminale, in questa logica -osserva Sanguinetti -, cioè qualcuno interessato colpevolmente a conservare odiosi privilegi e a opprimere gli altri potrebbe farlo. E se si vedono in azione dei popolani, invece che aristocratici con il codino, si deve trattare di banditismo organizzato, di devianza sociale da reprimere» (p.9).

Non a caso un vero patriota come il sopracitato de' Sivo è stato a lungo colpito da una ideologica damnatio memorie tanto nelle scuole quanto nelle Università e case editrici nazionali. Si trattava infatti di un uomo di pensiero che, in passaggi come quelli che troviamo nel suo "I Napoletani al cospetto delle nazioni civili", arrivava a rivendicare con orgoglio come quello che veniva inculcato propagandisticamente come un "brigantaggio", era in realtà una vera e propria guerra nazionale: «Questo nome di brigante, che fu già tristo ed abbietto, noi lo facciamo amare dalle anime gentili, e lo rendiamo glorioso. [...] combattiamo nudi, scalzi,senza giacigli, sotto i raggi cocenti del sole o fra i geli dell'inverno, entro inospitali boschi...versiamo il sangue fra la benedizione dei sofferenti, sostentati dal l'amore dei popoli più miseri di noi e sorretti da quel Dio che non abbandona gli oppressi».

Ed oppresse furono davvero le popolazioni insorte nel meridione se fin dall'agosto 1862, in occasione dello sbarco garibaldino in Calabria, venne dai sabaudi proclamato nell'intero Mezzogiorno e in Sicilia lo stato d'assedio, che sarà occasione preziosa per instaurare un'aperta dittatura militare. La permanenza di fatto di questo stato, che per definizione dovrebbe essere "transitorio e straordinario", fino all'introduzione delle leggi eccezionali del 1863, è da interpretarsi, come sostiene Pappalardo, quasi esclusivamente in funzione "anti-briganti": «L'azione di "governo" esplicata dall'esercito insieme alle operazioni militari è largamente arbitraria nei confronti delle popolazioni, anche cittadine, provocando nuovi rancori e un più intenso favoreggiamento nei confronti degli insorti...Verso i cittadini in genere l'unico atteggiamento degli occupanti è la repressione terroristica, consistente fin dall'inizio nella fucilazione sommaria per i "cafoni" colti con le armi alla mano e sospettati di appoggio ai briganti, e nelle rappresaglie indiscriminate, specialmente gli incendi, i saccheggi e gli atti di vandalismo» (p. 103).

Dopo un dibattito di pochi giorni, quindi, il 6 agosto 1863, il Parlamento del neoproclamato "Regno d' Italia" approva una legge speciale contro il "brigantaggio", detta "legge Pica" dal nome del proponente, il deputato Giuseppe Pica ( 1813-1887), che istituzionalizza la repressione. Almeno dodicimila persone sono arrestate o confinate grazie alla "legge Pica", mentre i tribunali militari celebrano 3.616 processi con 9.290 imputati fra il 15 agosto 1863 e la fine del 1864.

Fra i denunciati 5.816 sono contadini, 1.266 possidenti e i rimanenti esercitano altre professioni: «Questi dati - commenta Pappalardo - da un lato provano la partecipazione alla lotta di tutti gli strati popolari, dall'altro lato smentiscono le affermazioni circa l'assenza di contadini e braccianti dal moto antirisorgimentale, perché costoro furono ben presenti, armi alla mano, a contrastare tenacemente la Rivoluzione unitaria» (pp. 109-110).

Ma quante furono gli Italiani vittime della "Rivoluzione italiana"? Pappalardo dedica opportunamente un paragrafo apposito alla "legislazione speciale" (pp. 101- 111) ed alle sue tragiche conseguenze per i "briganti" e le popolazioni meridionali smentendo le ricostruzioni posteriori di comodo tendenti a minimizzare i fatti e le responsabilità dei "piemontesi".

«Considerando che la resistenza investì 1400 centri abitati - afferma lo storico - e coinvolse da un lato almeno centomila soldati regolari e altrettante guardie nazionali, e dall'altro lato molte migliaia di uomini — fra cinquantamila e ottantamila, secondo le fonti e la letteratura esistente - dagli appartenenti alle bande ai renitenti alla leva, senza contare le popolazioni dei paesi insorti nei primi mesi di guerra, non è assolutamente credibile la cifra di poche migliaia di fucilati» (pp. 110-111).

Il numero dei morti della "Vandea italiana" secondo le stime degli storici più credibili giunge, come conclude Pappalardo, «a una cifra minima di ventimila e una cifra massima di oltre settantamila vittime, un numero molto superiore alla somma dei caduti di tutti i moti e le guerre risorgimentali dal 1820 al 1870» (p. 111).

Al di là del nobile intento di onorare, con opere di "revisione" storiografica come "Il brigantaggio postunitario. Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione", la memoria ed il "sangue dei virili" del 1861-70, da una rilettura non ideologica degli eventi che costituirono il "risorgimento" italiano, credo debba risaltare in primo luogo proprio il superamento dell'etichetta liquidatoria di "brigantaggio" a quello che costituì invece un vero e proprio sistema semiorganizzato di resistenza ai Savoia e chiara manifestazione di fedeltà ai governi legittimi ed alla Chiesa cattolica da parte di vasti strati popolari. Senza indulgere in atteggiamenti nostalgici né ignorare le circostanze economiche e politiche, soprattutto di natura internazionale, che nel secolo XIX cospiravano comunque a favore di una unificazione politica della Penisola, come sottolinea l' On. Pagano nella sua Presentazione, appare comunque oggi quanto mai fondamentale denunciare, sul piano storiografico, tutte le gravi conseguenze di un'unità d'Italia voluta contro l'identità tradizionale e religiosa del Paese: «il comportamento infido e sleale dei politici e dei militari del Regno di Sardegna prima, del Regno d'Italia poi, l'atteggiamento brutale e quasi "coloniale"degli invasori, l'azzeramento dell'apparato legislativo e amministrativo borbonico, le epurazioni nella società napoletana e soprattutto la recisione delle radici storiche culturali del regno» (p.5) .

Giuseppe Brienza