L'omelia di commemorazione di Don Massimo Naro

Miserationum Domini recordabor: questo è il motto episcopale di Aldo, scolpito già sulla tomba che ne ospiterà il feretro. Aldo è stato davvero coerente a questo suo motto, che scelse nei giorni successivi alla sua elezione: "Ricorderò le misericordie del Signore".

Le parole del profeta Isaia sono state per lui, al contempo, sintesi della sua vicenda umana, cristiana e presbiterale precedente all’ordinazione episcopale e programma anche degli anni del suo breve ma intenso episcopato.

Il rimando al "ricordo" delle "misericordie" usategli da Dio non si spiega soltanto alla luce della sua notissima sensibilità per lo studio della storia. Si illumina di senso anche e soprattutto se si getta lo sguardo dentro il suo cuore, nelle pieghe intime della sua spiritualità e della sua esperienza credente.

Aldo era consapevole ("consapevole"…, non semplicemente e magari arbitrariamente "convinto") di essere stato, grazie al battesimo, coinvolto nel grande mistero di Dio che si compie per noi uomini nell’orizzonte della storia della salvezza. Dio è invisibile ─ mi diceva spesso ─ non perché "non si vede", ma perché è Dio. Dio è Dio.

Questa tautologia, su cui egli tante volte s’era soffermato a parlare con me, mentre insieme commentavamo le pagine di un grande testimone del cristianesimo contemporaneo a lui tanto caro ─ don Divo Barsotti ─ si ritrova spiegata oltre che nella riflessione di Karl Barth, anche nella lunga e ricca tradizione teologica medievale e cattolica, da Anselmo d’Aosta a Tommaso d’Aquino, sino a Romano Guardini e a Balthasar, questi ultimi fra i teologi contemporanei che egli leggeva con rinnovato interesse proprio dacché era diventato vescovo e che insistentemente citava nelle sue omelie e nei suoi scritti pastorali, insieme a grandi poeti come Turoldo e Montale.

Ma si trova già e innanzitutto nella preghiera del salmista:

«O Dio, tu sei il mio Dio…» (Sal 61,2).

Dio è dunque invisibile perché è tutt’altro da noi. E, tuttavia, è disposto a trascendere la sua stessa trascendenza, ad avvicinarsi a noi, ad azzerare la radicale alterità rispetto a noi, a farsi a noi così prossimo da lasciarsi finalmente possedere da noi.

Questo è la storia della salvezza: questo rapporto di Dio con ciascuno di noi, che fa essere ciascuno di noi in rapporto con Lui e perciò con tutti coloro che sono a loro volta in rapporto con Dio, in Dio, per Dio. Ecco perché la storia della salvezza, costellata di meraviglie divine che occorre celebrare e ricordare con gratitudine, è fondamentalmente storia di santità e di santi. Aldo ne era lucidamente consapevole.

Per questo motivo, per lui, la storia che studiava con la sensibilità, con il gusto e con la competenza dello storico di professione, ha il suo capitolo centrale nella storia della Chiesa. E questa, la storia della Chiesa, ha il suo capitolo più bello e più importante nella storia della santità. La santità era, per lui, il contenuto principale della storia della Chiesa, che è storia di santi: i tanti santi di un tempo e quelli non meno numerosi, anche se forse non ancora conosciuti, dei nostri tempi.

I santi che anche nella sua Sicilia, a Caltanissetta e a Monreale, ci sono stati: quelli che Aldo con immenso amore ha elencato nella litania delle figure spirituali della sua diocesi. I santi che incontrano Dio ovunque, sulle diverse frontiere ─ ecclesiali, ma non solo ─ della loro vita quotidiana, nei monasteri e negli istituti di vita consacrata come negli oratori parrocchiali, all’università come in fabbrica, nelle piazze come nelle sagrestie.

Ed era, per lui, la santità, anche la chiave di lettura della storia ecclesiale stessa: non solo un capitolo di essa, ma anche la cifra con la quale interpretare il mistero della Chiesa, casta meretrix, composta di peccatori che però sono insistentemente invitati e condotti da Dio alla conversione e alla riconciliazione con Lui.

Ed era, inoltre, la santità, cioè il rapporto iniziato e mai interrotto, sempre ripreso, rinnovato, purificato, tenacemente e fedelmente intrattenuto da Dio stesso con il credente, l’orizzonte in cui, con inevidente, discreta, ma anche radicale tensione, egli stesso, Aldo, tentava giorno per giorno di camminare. Non solo una "cosa" da studiare, non solo una "chiave di lettura" per capire il mondo e la Chiesa, ma anche l’unica possibilità, per un cristiano come lui, di vivere bene nel mondo e nella Chiesa.

Tutto questo egli lo capiva benissimo già da prima di essere vescovo. Ma da vescovo cominciò anche a sperimentarlo sempre più profondamente. Così, reputo, si debbano interpretare due dei suoi più bei doni alla Chiesa di cui fu pastore: le sue due lettere pastorali. La prima, quella sul "futuro" delle parrocchie della sua diocesi, lettera fattiva, progettuale, attenta alla situazione monrealese fino al dettaglio, realistica, non melliflua, non retorica. E la seconda, quella il cui titolo sintetizza bene il suo vero programma pastorale: Amiamo la nostra Chiesa, quella stessa Chiesa fatta, nel corso dei secoli, di quelle meraviglie divine che sono stati i santi, i beati, gli spirituali monrealesi da lui elencati nella sua litania.

Due facce della stessa medaglia, i due versi di uno stesso distico. Come a dire che non ci può essere una efficace prassi pastorale, se non ci sono radici spirituali (i santi appunto) e se non c’è radicamento spirituale: cioè l’amore da nutrire per la Chiesa.

Da queste due lettere pastorali si ricavano poi le problematiche ecclesiali su cui egli lavorava a livello nazionale, come presidente della commissione CEI per la cultura e come membro del Consiglio permanente della CEI, e su cui invitava anche la sua diocesi a immaginare e a progettare il suo rinnovamento: la questione della efficace trasmissione della fede oggi in una terra come la Sicilia; la questione della ministerialità nella Chiesa, variamente espressa ed articolata, e la correlata questione della ministerialità della Chiesa nella società odierna, nel solco di quello che la Chiesa italiana tutta ha, in questi ultimi dieci anni, percorso come la strada del progetto culturale cristianamente ispirato; la questione del discernimento ecclesiale, evangelicamente motivato e argomentato, sulle varie realtà del mondo in cui viviamo: del dialogo tra le religioni monoteistiche, della secolarizzazione e del secolarismo, del martiriale confronto tra legalità e illegalità nelle zone ad alta densità mafiosa.

Sono questioni per le quali tante volte si metteva in contatto con me ─ egli che non aveva bisogno di me, essendo un vulcano di idee, un vaso stracolmo di intelligenza credente e di buona volontà ─ per chiedermi di collaborare con lui, alle sue tantissime iniziative culturali e pastorali: al Centro Intrecciagli da lui desiderato per lo studio delle figure spirituali di Monreale, alle settimane bibliche da lui organizzate ogni anno per i catechisti, ai convegni da lui voluti e realizzati con ritmi incalzanti per gli insegnanti di religione, ai progetti di ricerca socio-religiosa sul territorio da lui avviati con alcuni suoi più e meno giovani presbiteri e con i laici impegnati della diocesi al fine di fruire poi pastoralmente dei risultati di tali ricerche.

Ho detto che le sue lettere pastorali sono "due" dei "doni" da lui lasciati alla sua diocesi. Ma anche la visita pastorale, fatta con dedizione, anzi con abnegazione, senza risparmiarsi fatiche nel viaggiare da un capo all’altro, senza avere paura di parlare con tutti e di tutto, senza avere paura di mettere le mani lì dove era necessario e doveroso metterle. Ed anche la sua vita, portata a termine con questa sua morte, è stato un dono alla Chiesa: non solo a quella monrealese, ma soprattutto a quella monrealese. Anzi: è stata, a mio parere, il suo più bel dono.

Voglia Dio che la sua morte venga colta e accolta anche come il compito più importante che mio fratello lascia al suo popolo ecclesiale e alla Sicilia e alle Chiese d’Italia per le quali pure tantissimo lavorò e faticò con la ferma speranza di contribuire ad un futuro bello e positivo per il cattolicesimo italiano e per l’intero nostro Paese.

Ora noi lo salutiamo qui, nella sua diocesi d’origine, nella sua città natia. Qui egli, con pazienza, con umiltà, con intelligenza, con amore, è diventato a poco a poco ciò che è stato, con lo studium che sempre e ovunque lo ha poi caratterizzato. Uso il termine latino per dire che lo studio, per lui, fu un atto d’amore, fu zelo pastorale, fu interesse culturale, fu impegno civile. Non otium, ma studium. Lavoro intellettuale, cristianamente ispirato, fatto non per sé e in solitudine, per riposarsi, per svagarsi, per autocoltivarsi, ma per gli altri e con gli altri. Chi sa cos’è stato il Centro Studi Cammarata, da lui creato e diretto per vent’anni, può comprendere cosa intendo dire: una storia d’amicizia con tutti e di tutti, che dalle viuzze del quartiere San Giuseppe si è allargata a tutta la Sicilia, a tutta l’Italia e ancora di più e oltre.

Una storia di amicizia intrecciata da Aldo innanzitutto nella linea del tempo: mettendosi in dialogo con le personalità da lui studiate, con le loro antiche carte, con i fatti storici di cui essi erano stati protagonisti, a livello politico, economico, sociale, culturale, ecclesiale, spirituale. E, quindi, anche nella linea dello spazio: amicizia con le vecchiette che abitano nel vicolo in cui sorge la sede del Centro Cammarata e che oggi mi ricordano inopinatamente le parole ch’egli rivolgeva loro, amicizia che si allargava ai professori universitari e ai giovani ricercatori locali, agli editori, ai tipografi, ai collaboratori d’ogni tipo, ai soci del Centro, agli amici della stagione di "Argomenti", agli amici affezionati alle iniziative culturali da lui organizzate, agli amici lontani, raggiunti con insistente cordialità dagli inviti e dai libri da lui spediti in dono, agli operatori culturali delle grandi città e dei paesi di provincia, agli uomini – ecclesiastici e laici – di buona volontà impegnati per la Chiesa italiana, ai religiosi da lui conosciuti, ai laici consacrati, ai laici politicamente e socialmente impegnati, agli operatori nel mondo dell’informazione e dei media, ai colleghi – alcuni a lui vicini come fratelli – della Facoltà Teologica a Palermo e dell’Istituto Teologico di Caltanissetta, ai preti suoi confratelli nella diocesi nissena, sempre da lui stimolati a svolgere il loro ministero con amore intelligente, fino al suo vescovo, e ancora, ad oltranza, fino alla gente monrealese, ai giovani della diocesi di cui fu vescovo, alle donne e agli uomini di buona volontà conosciuti e amati immensamente nell’esercizio del suo travagliato episcopato.

Sì: travagliato, come lui stesso mi diceva talvolta, confidandomi alcune sue pene, alcune sue delusioni, alcuni suoi smarrimenti, insieme però alle sue incrollabili speranze, al suo sorriso pudico e sgargiante al contempo, alla sua gioia causatagli dalla collaborazione di alcuni suoi presbiteri su cui appuntava le speranze per il rinnovamento, al suo ottimismo.

E il suo ottimismo non era facilone. Aveva piuttosto una qualità pasquale, si fondava sulla logica evangelica del chicco di frumento caduto tra le zolle, che non può portare frutto se non marcisce, se non si spacca, se non si annichilisce.

Non si può essere ottimisti se non c’è travaglio. E il travaglio è positivo solo se infine è ottimista. Come avviene quando una madre dà alla luce il suo bimbo. Come accadde quando i discepoli di Gesù, impauriti e perplessi, ne trovarono la tomba ormai svuotata. Come avvenne quando i due di Emmaus, allo spezzare del pane, videro dissolversi il velo della loro tristezza e sentirono rinascere in loro la speranza che avevano prima smarrito.

Per Aldo è stato proprio così: ho trovato un biglietto sul suo comodino, nella sua camera da letto: un foglietto con su impresso il logo della Conferenza Episcopale Italiana: sul verso bianco, con la sua inconfondibile grafia, tre annotazioni a penna, uno, due e tre, com’era solito scrivere e parlare ai fedeli di Monreale: «1) rendo grazie per voi, siate degni del dono fattovi... [e quest’ultima parola è sottolineata]; 2) vieni e visita la tua vigna [parola sottolineata tre volte]: pregate per la nostra Chiesa, perché il Signore sciolga i cuori induriti [qui segue il termine "pessimista" che viene però cerchiato e a cui segue un’altra parolina "spero..."]; 3) preghiera: perché lasci indurire il nostro cuore, perché non ti temiamo? [e questa frase è interamente sottolineata più volte]».

Il suo travaglio è ora il nostro travaglio. La sua speranza è ora la nostra speranza. E devono essere anche il travaglio e la speranza della sua Chiesa, della diocesi monrealese. Aldo mi confidava che Monreale aveva bisogno di questo tipo di travaglio e di questa speranza.

Parlandomi di come mons. Intreccialagli aveva vissuto il suo episcopato a Monreale, mi diceva che sentiva talvolta la stessa solitudine sperimentata dal suo santo predecessore. Ed è per questo che desiderava essere sepolto nel duomo di Monreale, ai piedi della tomba del servo di Dio mons. Intreccialagli. «Per tenergli compagnia e per farmi tenere compagnia», mi diceva. Ora, invece, Aldo sarà sepolto qui, nella chiesa madre di San Cataldo, accanto a un’altra serva di Dio sancataldese, Marianna Amico Roxas, amica e discepola di Intreccialagli, quando questi – prima di trasferirsi a Monreale – era vescovo della diocesi nissena. E amica spirituale di Aldo, che a lei – come a Intreccialagli – ha dedicato la maggior parte dei suoi studi storici e ha rivolto tante sue preghiere.

Aldo capisce e approva il perché di questa mia scelta, come la capiscono e l’approvano tutti i suoi veri amici, memori del suo buon senso e della sua sapienza: egli capisce e approva di non essere così sottratto, finché sarà giusto e necessario, alla pietà della sua mamma.

Tornerà nella sua ammiratissima cattedrale, tornerà ai piedi di mons. Intreccialagli di cui era devotissimo, tornerà tra il suo amatissimo popolo ecclesiale, tra la stimatissima gente di Monreale, di Corleone, di Terrasini, di Isola delle Femmine, di Altofonte, di Partinico, di San Cipirrello, di Giuliana, di Capaci e di tutti gli altri paesi della sua diocesi, tornerà dove egli desiderava riposare, nel sepolcro rimasto per secoli vuoto benché fosse stato già preparato per l’arcivescovo Ludovico II Torres, altro grande suo predecessore, amico di san Filippo Neri e del cardinale Federico Borromeo, anche lui, come Aldo, innamorato dello splendore dei mosaici del duomo e desideroso di illustrare di splendore la storia della Chiesa monrealese. Ma tornerà, Aldo, a Monreale solo quando il posto per la sua sepoltura sarà scavato nella nostalgia dei suoi fedeli, nella loro memoria, nell’espressione sincera e inequivocabile della loro gratitudine al Signore per il dono che hanno ricevuto nel vescovo Cataldo.

Aldo, la tua diocesi, in cui sei nato alla fede e in cui sei stato presbitero, la città dei tuoi natali, ti salutano stasera e riaccolgono le tue spoglie. Mi chiedevi sempre di tutto e di tutti. Avevi ancora a cuore le sorti della diocesi nissena. E hai portato ovunque il nome di San Cataldo: nelle biblioteche di tutt’Italia, nelle citazioni degli studiosi, nell’ammirazione degli amici che avevi ovunque in Italia, hai fatto includere il tuo paese d’origine nei loro interessi, nelle loro conoscenze, in alcuni loro progetti. Ci hai ricordato. E noi per sempre ti ricorderemo. Tu ricordati ancora di noi, innestaci nel cuore eterno del Signore.

Don Massimo Naro