Domenica, 16 Giugno 2024


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Spigolature

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di Gregorio Geraci

L’estate ci regala di solito alcune provocazioni politiche il cui scopo, a volte, è solo quello di sondare le reazioni della gente. Quest’anno la Lega Nord si è distinta proponendo di valutare la conoscenza che hanno gli insegnanti degli usi, dei costumi e della lingua del posto. A parte i modi coloriti degli esponenti leghisti, ho trovato la proposta piuttosto interessante. La stampa prima e la televisione dopo hanno “uniformato” il nostro linguaggio diffondendo la conoscenza dell’italiano ed una cultura addirittura universalistica, se non universale. Però, ricordo ancora quando la TV di Stato proponeva le commedie di Eduardo De Filippo, di Gilberto Govi, di Edoardo Spataro e di Carlo Goldoni, cosa che purtroppo non fa più, avendole sostituite con le moderne “fiction” nelle quali, tuttavia, l’idioma più usato (e quindi più noto) è quello romanesco. Per conseguenza, la conoscenza di certe tradizioni e persino del dialetto locale si è diciamo affievolita. Personalmente, poi, ho trovato la lettura del Gattopardo, per esempio, molto più interessante di quella dei Promessi Sposi che mi è stata propinata al liceo. Allora perché non rispolverare, anche attraverso autori come Brancati, Martoglio e Sciascia e tutti gli altri la lingua e, soprattutto, la cultura dei nostri nonni che non siamo più in grado di capire? Perché relegare al semplice ruolo di “manifestazione folkloristica” le “laudazioni” che si cantavano una volta nelle processioni, principalmente dietro alle “vare”? Non sarebbe forse bene se la scuola, oltre ad impartire la conoscenza della lingua italiana, ci facesse conoscere anche le nostre più profonde radici?

Negli anni passati, quelli della “prima repubblica”, se volete, più di un omosessuale ha rivestito incarichi di governo nazionale e addirittura di Presidente del Consiglio. Eppure mai tale condizione è stata oggetto dell’attenzione di chicchesia e, men che meno, dell’opposizione comunista che rispettava le istituzioni e conduceva le sue battaglie proponendo politiche alternative. Da un po’ di tempo, invece, la sinistra è costretta a correre dietro a certa stampa che non si è indignata quando Sircana, portavoce di Prodi, fu pizzicato a contrattare per strada le prestazioni di un transessuale ed ora difende Marrazzo, vittima si di un ricatto, ma protagonista di festini con transessuali e forse anche “aiutini” non proprio legittimi, ma concede ampio spazio ad “escort” (ora si chiamano così) e cerca di infilarsi nel letto degli avversari, piuttosto che suggerire soluzioni, che non ha, ai problemi.

Già, perché non mi pare, per esempio, che il congresso del PD si sia celebrato intorno a proposte, programmi e progetti, ma piuttosto che si sia avvitato in una lotta interna di potere senza prospettive. I tre candidati si sono sfidati proponendo modelli di alleanze che guardavano al passato, piuttosto che al futuro: l’uno rivolto al vecchio “ulivo” che tanti guasti ha creato, l’altro ad una timidissima riedizione della “vocazione maggioritaria” ma con uno sguardo a destra “ma anche” a sinistra, e l’ultimo, per non offendere nessuno, non si è pronunciato nemmeno e, comunque, non c’è stata alcuna indicazione su temi importanti se non quella che chi non condivide la linea del partito, per esempio la Binetti, va “purgato”: gira e rigira, siamo tornati al “centralismo democratico”! Non mi stupisce, quindi, che qualche suo esponente non radicale cerchi altri lidi cui approdare. Mi stupisce, semmai, che alcuni cattolici sedicenti progressisti vi rimangano. Ma forse il richiamo di una comoda poltrona è troppo forte per potervi resistere!

Ho seguito con interesse l’evoluzione congressuale del PD, sapendo già dove andava a parare: gli epigoni del partito comunista, ancora in maggioranza nel PD rispetto alle sparute rappresentanze pseudo-cattoliche, hanno mantenuto una struttura organizzativa che non poteva mancare di far sentire il suo peso. Mi sembrava assai probabile che, dopo aver vinto la sfida dei delegati, Bersani, con l’appoggio dei poteri forti del vecchio PCI, vincesse anche quella del popolo delle urne e così è stato. Per la verità, trovandomi piuttosto vicino ad uno dei seggi delle primarie, mi sono divertito a guardare, di tanto in tanto, cosa vi succedeva e non mi è parso di vedere così tanta gente: evidentemente l’afflusso di elettori c’era nei momenti in cui non guardavo io. In ogni caso, alla fine della fiera, la montagna ha partorito il classico topolino. E poi, nei pochi Paesi che le praticano, le “primarie” si celebrano per scegliere il “candidato” ad una carica istituzionale: quando mai si è visto che servano ad eleggere il capo di un partito politico?

E, infine, la sinistra italiana resta ancora legata, secondo me, ad una visione “illuministica” della storia. Molti suoi esponenti sono tuttora convinti che il “popolo” non sia in grado di decidere da sé ma dovrebbe affidarsi alla elite intellettuale che i dirigenti di sinistra rappresentano e che ha, essa soltanto, il pieno diritto di guidarlo: quasi la riproposizione del concetto di “popolo bue”, tanto caro a certa cultura degli anni ’50 o, peggio, di quello di Lenin che, per difendere la appena nata rivoluzione, non esito ad ordinare di aprire il fuoco sulla gente che chiedeva soltanto pane. Peccato che, oggi, la gente sa leggere, scrivere e persino far di conto. Ricordiamolo a questi sacri intellettuali, che si sentono unti del diritto di assegnare patenti agli altri, che non siamo più nel 1917, non siamo più nella Russia contadina e non c’è nemmeno più lo Zar!

di Gregorio Geraci

L’estate ci regala di solito alcune provocazioni politiche il cui scopo, a volte, è solo quello di sondare le reazioni della gente. Quest’anno la Lega Nord si è distinta proponendo di valutare la conoscenza che hanno gli insegnanti degli usi, dei costumi e della lingua del posto. A parte i modi coloriti degli esponenti leghisti, ho trovato la proposta piuttosto interessante. La stampa prima e la televisione dopo hanno “uniformato” il nostro linguaggio diffondendo la conoscenza dell’italiano ed una cultura addirittura universalistica, se non universale. Però, ricordo ancora quando la TV di Stato proponeva le commedie di Eduardo De Filippo, di Gilberto Govi, di Edoardo Spataro e di Carlo Goldoni, cosa che purtroppo non fa più, avendole sostituite con le moderne “fiction” nelle quali, tuttavia, l’idioma più usato (e quindi più noto) è quello romanesco. Per conseguenza, la conoscenza di certe tradizioni e persino del dialetto locale si è diciamo affievolita. Personalmente, poi, ho trovato la lettura del Gattopardo, per esempio, molto più interessante di quella dei Promessi Sposi che mi è stata propinata al liceo. Allora perché non rispolverare, anche attraverso autori come Brancati, Martoglio e Sciascia e tutti gli altri la lingua e, soprattutto, la cultura dei nostri nonni che non siamo più in grado di capire? Perché relegare al semplice ruolo di “manifestazione folkloristica” le “laudazioni” che si cantavano una volta nelle processioni, principalmente dietro alle “vare”? Non sarebbe forse bene se la scuola, oltre ad impartire la conoscenza della lingua italiana, ci facesse conoscere anche le nostre più profonde radici?

Negli anni passati, quelli della “prima repubblica”, se volete, più di un omosessuale ha rivestito incarichi di governo nazionale e addirittura di Presidente del Consiglio. Eppure mai tale condizione è stata oggetto dell’attenzione di chicchesia e, men che meno, dell’opposizione comunista che rispettava le istituzioni e conduceva le sue battaglie proponendo politiche alternative. Da un po’ di tempo, invece, la sinistra è costretta a correre dietro a certa stampa che non si è indignata quando Sircana, portavoce di Prodi, fu pizzicato a contrattare per strada le prestazioni di un transessuale ed ora difende Marrazzo, vittima si di un ricatto, ma protagonista di festini con transessuali e forse anche “aiutini” non proprio legittimi, ma concede ampio spazio ad “escort” (ora si chiamano così) e cerca di infilarsi nel letto degli avversari, piuttosto che suggerire soluzioni, che non ha, ai problemi.

Già, perché non mi pare, per esempio, che il congresso del PD si sia celebrato intorno a proposte, programmi e progetti, ma piuttosto che si sia avvitato in una lotta interna di potere senza prospettive. I tre candidati si sono sfidati proponendo modelli di alleanze che guardavano al passato, piuttosto che al futuro: l’uno rivolto al vecchio “ulivo” che tanti guasti ha creato, l’altro ad una timidissima riedizione della “vocazione maggioritaria” ma con uno sguardo a destra “ma anche” a sinistra, e l’ultimo, per non offendere nessuno, non si è pronunciato nemmeno e, comunque, non c’è stata alcuna indicazione su temi importanti se non quella che chi non condivide la linea del partito, per esempio la Binetti, va “purgato”: gira e rigira, siamo tornati al “centralismo democratico”! Non mi stupisce, quindi, che qualche suo esponente non radicale cerchi altri lidi cui approdare. Mi stupisce, semmai, che alcuni cattolici sedicenti progressisti vi rimangano. Ma forse il richiamo di una comoda poltrona è troppo forte per potervi resistere!

Ho seguito con interesse l’evoluzione congressuale del PD, sapendo già dove andava a parare: gli epigoni del partito comunista, ancora in maggioranza nel PD rispetto alle sparute rappresentanze pseudo-cattoliche, hanno mantenuto una struttura organizzativa che non poteva mancare di far sentire il suo peso. Mi sembrava assai probabile che, dopo aver vinto la sfida dei delegati, Bersani, con l’appoggio dei poteri forti del vecchio PCI, vincesse anche quella del popolo delle urne e così è stato. Per la verità, trovandomi piuttosto vicino ad uno dei seggi delle primarie, mi sono divertito a guardare, di tanto in tanto, cosa vi succedeva e non mi è parso di vedere così tanta gente: evidentemente l’afflusso di elettori c’era nei momenti in cui non guardavo io. In ogni caso, alla fine della fiera, la montagna ha partorito il classico topolino. E poi, nei pochi Paesi che le praticano, le “primarie” si celebrano per scegliere il “candidato” ad una carica istituzionale: quando mai si è visto che servano ad eleggere il capo di un partito politico?

E, infine, la sinistra italiana resta ancora legata, secondo me, ad una visione “illuministica” della storia. Molti suoi esponenti sono tuttora convinti che il “popolo” non sia in grado di decidere da sé ma dovrebbe affidarsi alla elite intellettuale che i dirigenti di sinistra rappresentano e che ha, essa soltanto, il pieno diritto di guidarlo: quasi la riproposizione del concetto di “popolo bue”, tanto caro a certa cultura degli anni ’50 o, peggio, di quello di Lenin che, per difendere la appena nata rivoluzione, non esito ad ordinare di aprire il fuoco sulla gente che chiedeva soltanto pane. Peccato che, oggi, la gente sa leggere, scrivere e persino far di conto. Ricordiamolo a questi sacri intellettuali, che si sentono unti del diritto di assegnare patenti agli altri, che non siamo più nel 1917, non siamo più nella Russia contadina e non c’è nemmeno più lo Zar!

 

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