Ci giunge da Ivan Rizzi, Presidende Fondazione Banca Europa, il presente documento che volentieri pubblichiamo.
Mercoledì 25 Maggio 2011 08:37
Due esercizi eretici
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Spiritualità e bellezza Io non ho un messaggio né un consiglio di scuola di vita da infilare nel testo, ma è al testo che lo chiedo come un ricercatore alla natura, come Livingstone alla sua Africa. Sarà però necessario drammatizzare fin dall’inizio le domande che faremo rispetto ad aspettative che abbiano un qualche valore.
Qui lascio la strada maestra delle categorie economiche sociali per percorrere un sentiero abbandonato da tempo. La mia attenzione è quindi rivolta a due “marginalità”: la spiritualità e la bellezza.
Anche attraverso queste voci così inattuali, se non sono del tutto estranee alla personalità di chi legge, può forse prendere forma una necessità di sé sensibile e insieme esigente rispetto alle aspettative di
felicità e di autorealizzazione.
La domanda sul che fare forse sembrerà elusa o perlomeno sviata visto che insisto soprattutto sulla responsabilità della singola soggettività.
Tuttavia ciò esprime una grande fiducia in quello che un giovane potrà fare e in ciò che vorrà essere, nonostante tutto. In fondo la giovinezza è da sempre incaricata a essere il futuro.
1° esercizio: la spiritualità Lo si voglia o no, questa è la prima epoca senza Dio. Il Dio che scompare però non è affatto un universale come credono i più: accade solo in Europa e in nessuna altra parte del globo. Il mondo invece coi propri assoluti si prepara a sostituire l’Occidente proprio a cominciare da qui.
Ora che tutti gli oltrepassamenti sono stati compiuti resta un solo universale, il mercato, ma anche se il capitalismo dovesse avere i se-1 Così anche Giuseppe Pontiggia spiegava la sua scrittura.
coli contati tutto preme affinché la nostra era finisca nelle braccia della tecnica.
Eppure in tutta questa ineluttabilità ed evidenza le vaghe stelle del firmamento sfuggono ogni notte al loro esilio e con esse la costellazione delle domande sulle cose ultime (o prime).
È l’assoluto che insiste a mostrarsi e a voler fiammeggiare ancora per noi.
“Come fosse lo spazio a pensare per lui lentamente pensieri”. Rilke sembra scambiare il soggetto con l’oggetto, echeggiando un animismo incantato, ci dice che esiste un unico creato.
Ma è vero anche che tutto esiste (in noi) semplicemente per il fatto che lo si pensi (come nel realismo ipotetico), o lo si rifletta come in uno specchio. Riflettere in quanto pensare e riflettere in quanto specchiare
non possiedono solo la stessa parola grafica e fonologica ma in fondo dicono anche la stessa cosa. Speculare e contemplare vivificano ciò che guardiamo, lo rendono reale pur nella diversità tra la cognizione
delle cose nella conoscenza e la loro percezione nella coscienza.
L’uomo è forse la parte più alta della materia, ciò che riflette l’universo e sull’universo. Per questa congettura l’universo finalmente “sa” di esistere proprio perché una sua parte, se pure infinitesima, lo
pensa e lo esperisce, o meglio essendone parte si pensa e si esperisce.
Dobbiamo credere che le cose diventino vere solo attraverso il nostro “sguardo”. Il tempo stesso è solo un perpetuo travaso dall’esistente materia alla coscienza-immateria, dalla insensibilità alla sensibilità
e viceversa (come nei miti della creazione). La sabbia della clessidra resta la stessa, eternamente, mentre trascorre da un vuoto all’altro. L’infinito è congetturale e ipotetico ma la nostra visionarietà
lo oggettiva senza tregua, così ogni nuova “rivelazione” e ogni innovazione tecnica riguarda anche quell’incessante moto attraverso cui si espande l’universo-tempo.
Ed è lo stesso per lo spirito e la forma.
L’attinenza sfiora l’identità e ha il potere di contagiare e di trasformare. Con essa sentiamo ciò che è altro da noi, usciamo da noi stessi e in uno scarto, uno iato, ci perdiamo per poi ritrovarci diversi,
potenziati o forse anche umiliati.
Ma oggi che se ne fanno i giovani di tutto questo? Il tempo per loro è persino prolisso e pure che se ne fanno della spiritualità e della bellezza?
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Forse ciò che ne fanno della musica. In essa trovano identità ed espressione, l’hanno scoperta e se ne sono impossessati grazie alla malizia del mercato. La musica soddisfa un bisogno sia emotivo e sia
industriale! In effetti i giovani, in quanto categoria economica, non sono sempre esistiti: anch’essi sono una invenzione del mercato, soprattutto del secondo dopoguerra.
“Nel 1944 la parola ‘teenager’ diventò il termine invalso per descrivere
questa nuova concezione dei giovani come mercato di massa distinto. I teenager non erano adolescenti, né delinquenti minorili. Il consumismo offriva il perfetto contrappeso alle rivolte e alle sommosse,
era il modo americano di deviare senza danni le energie dei giovani”2.
Spiritualità e bellezza sono in realtà sempre inseguite dalla psiche giovanile. Sono come “idee pure” che si delineano sottoforma di archetipi di personalità (a volte epici, a volte semplicemente trasgressivi)
sono simboli altamente germinativi che come enzimi programmano aspettative e atti.
Si tratta di essenze delicatissime che possono venire traviate anche dallo stesso dispositivo formativo. Pur trattandosi di entità astratte, hanno sempre rappresentato il materiale di costruzione di ogni visionarietà nascente del sé e di ogni idea emancipativa.
Se si toglie ai giovani queste epitomi li si priva di quella radicalità e sovversità autofondativa che costituiscono i grandi promotori dell’identità e del carattere. È l’assoluto, la sua utopia che stimola a crescere non la medietas, con esso si prova il possibile della libertà e il giusto della dignità. (Se così non fosse rimarrebbe tutto in mano al passato, al realismo scettico che fatalizza, all’eccesso che narcotizza e devia e soprattutto in mano alle promesse intensive del mercato).
Nei giovani c’è appunto una coincidenza quasi tattile tra vita e pensiero, che poi non si dispiegherà che raramente nel rapporto tra biografia e sapere, ma intanto questa attinenza prima che possa venire travolta dai conformismi, dalle convenzioni e dagli scopi efficienti resterà per sempre nell’ipostasi psichica a volte come perdita, ma a volte anche come ricchezza estranea al consumo.
Nulla sembrerebbe spiegare, se non forse questa prossimità con gli assoluti, come il suicidio nei giovani sia la seconda causa di morte.
Ogni risposta ci obbliga a considerazioni che vanno al di là della interpretazione patologica.
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2 John Savage, L’invenzione dei giovani, Feltrinelli. Se il desiderio di divenire si spegne, il suicidio può rappresentare l’atto totale di devozione a una ipotesi alta di esistenza – data per persa – essa mostra la distanza incolmabile tra tali ipotesi e quello che c’è realmente.
Spiritualità e bellezza sono materie per una propedeutica alla vita che naturalmente dovrebbe trattare molte altre cose oggi poste a margine.
Queste voci non smettono di insistere sulle nostre scelte se pure elusivamente come in fondo fa la stessa cultura quando è trasgressiva – “parlare di cultura è sempre stato contro la cultura”3.
Viceversa la scuola è zeppa di risposte mentre le domande vagano inopportune tra piani didattici ben contingentati.
Le risposte invece non dovrebbero essere mai separate dalle domande, così come le nozioni dalle motivazioni, per il semplice fatto che la conoscenza è nulla se non diventa anche comprensione (l’accumulo della conoscenza lo sanno fare meglio i nostri processori).
Sto prefigurando, come si vede, una scuola dei significati o delle funzioni significanti, dove questi sono posti al centro della didattica, dicono intorno ai perché.
Invano Galilei a proposito di senso ci rivelò che tutta la natura è scritta in caratteri matematici, ossia che la matematica può accedere al suo perché4.
Il fatto che della didattica si sia espunto il senso che dovrebbe motivare ciò che si apprende risulta ancor più incomprensibile dato che oggi ogni dispositivo di comunicazione, a cominciare dal Web, ha ridotto
a niente la distanza tra la domanda e la risposta. Fuori e dentro la scuola tutto precipita in-tempo-reale, niente è lasciato al tempo lento dell’attesa. Le domande sembrano esigere risposte istantanee, quando non le anticipano.
Ma il primo motore che tutto muove è sempre la fame di senso e di possesso della mente (che è una forma di philia). In una scuola delle domande i libri potrebbero persino essere gli stessi delle materie tradizionali ma dovranno essere letti in modo diverso:
si dovrà dar conto della funzione dei contenuti, far scoprire il piacere di scrutare lo splendido paesaggio delle cose comprese e del
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3 Theodor Adorno.
4 Quattro secoli dopo per il matematico Richard Feynman “ognuna delle nostre leggi è un’asserzione puramente matematica, espressa in una matematica piuttosto complessa e astrusa… Perché? Non ne ho la minima idea. […] A quelli che non conoscono la matematica è difficile farsi un’idea precisa della bellezza, la profonda bellezza della natura”.
mondo delle idee, infine le materie non saranno che strumenti per scoprire il proprio sé, il cuore della propria presenza. Lo stupore ha ancora tutto da scoprire! Si dovrà dar conto dell’istanza di libertà senza accondiscendere
alla facilità del poco. Conoscere è per essere liberi. Sono pochi i docenti che si ostinano ancora a ripeterlo5. La psiche giovanile più di quanto si pensi è attraversata dal presentimento della nientità e non accetta di poter vivere inutilmente – lo ripeteva Leopardi – quindi sente l’impazienza di scoprire la propria “vena d’oro”, il proprio irripetibile codice personale per non vivere come un niente.
Ci si dovrà mettere sulle tracce di quelle sintesi esistenziali rappresentate da giovani eroi della letteratura, a caccia di se stessi in una ansiogena e caotica ricerca per trovare il proprio posto nel mondo.
“Come ci si sente soli e sconosciuti” Le risposte sono sempre lo stato di fatto, mentre è sulle domande inattese che si può creare ciò che esisterà. Che due più due faccia quattro è ciò che conosciamo già, Dostoevskij lo ripete ossessivamente in Memorie dal sottosuolo per dire che da lì non nasceranno mai nuove visioni e nuove verità, ma si ripeterà la convenzione attendibile che non ci farà sbagliare il calcolo, ma non aprirà mai il futuro.
L’immodestia giovanile aspira all’eccesso. “Perché sempre e soltanto questo succedersi ebete delle cose e mai la travolgente sazietà dell’unisono?”6 È il presentimento impaziente che sembra trovare risposta
nella musica. Ma nulla è così effimero come la musica, essa promette troppo, tuttavia cosa c’è d’altro nell’esistenza se non “un sognare sapendo di sognare?” Ed è la musica che sembra dare questa sazietà all’istante. È un cedere a quell’âge d’or dove il corporeo, la sua sensitività, non è ancora addomesticato dal teorico.
La musica sembra concedere un ulteriore spazio esistenziale oltre il prevedibile. Da qui l’intimità delle giovani generazioni che con la musica contemporanea diventano complici dell’ineffabilità contro quella che è giudicata l’estraneità del mondo.
La musica incanta e rapisce perché è data attraverso il piacere e, 97
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5 George Steiner, La lezione dei maestri, Garzanti. 6 Hermann Hesse, L’ultima estate di Klingsor. finalmente, senza concetto, cioè senza bisogno di essere interpretata o capita, proprio come avviene per la bellezza.
Il suo ritmo chiama la fisicità in quell’echeggiare delle cadenze più profonde del nostro corpo: il respiro, il battito del cuore e quelle intenzionali come il camminare o l’atto sessuale. Ma la musica fa anche qualcos’altro: nel suo consistere in durata sempre in bilico con il suo interrompersi temporale, evoca la stessa precarietà dell’esistere in quella vertigine tra essere e non-essere, tra suono e silenzio, proprio come la nostra esistenza e in essa non c’è nulla di quel necessario a cui si volge tutto il mondo della fattività7.
È viceversa evento gratuito, innecessario, vissuto senza ansia da inutilità dove ciò che è innato e ciò che è appreso sembrano fondersi. E tutto è dato nell’immediatezza, nell’istante di una successione di istanti incessanti e insieme irripetibili, eppure in questa labilità si può “sentire” l’eterno, ma appunto “non elevandosi, ma incarnandosi.
Più [l’uomo] si fa abisso, più si fa universo”8. Tra assenza e presenza è in atto la forza di attrazione di un magnete spirituale, che insiste sulla psiche del giovane prefigurando una grandezza del proprio sé. È quasi un diritto che sembra esigerle, anche se per lo più rischia di consegnare l’anima a una inesorabile solitudine, poiché tale aspettativa non può che venire delusa.
La musica diventa così rumore, segnale ostile, rifiuto del limite e del le proporzioni (l’armonia tra rapporti), reattività trasformata in codice. “Come ci si sente soli e sconosciuti?” cantava Bob Dylan. Essere
soli può anche risultare accettabile, ma sconosciuti è una condanna intollerabile per un adolescente, una ostilità gratuita contro il proprio sé nascente. Nella muta fisiologica e sociale egli pretende di non essere
trasparente ma di essere nominato e riconosciuto. La propria singolarità è percepita come un esporsi vulnerabile al mondo. E il mondo, la sua corrente contemporanea, non lo lusinga affatto: è quasi una cospirazione a riporre ogni pretesa di elevazione intellettuale e spirituale.
Persino al tempo libero si chiede di sfuggire al tempo di vita in una sorta di narcosi: che esso trascorra anche in “passatempo”, in un vuoto a perdere in cui oggettivarsi. È il “sogno della cosa” che si avvera nella totalità del consumo.
Nello stesso tempo la famiglia maternizzata, come si è visto, ha 98
7 Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli.
8 Ibidem. dismesso il compito di latrice di esperienza sintetica o di conformismo morale per assumere quello di elargitrice di benessere e di protezione incondizionata.
Eppure negli adolescenti tutta la galassia di assoluti creati dal proprio egocentrismo intellettuale, sembra affacciarsi così vicina e vivida che basterebbe allungare la mano per coglierla.
L’adolescente inizia a scoprire i princìpi generali che sottostanno ai problemi contingenti attraverso un inedito pensiero formale. Il suo interesse è volto a problemi inattuali che non hanno un rapporto con
la vita di tutti i giorni o che anticipano, con ingenuità disarmante, situazioni future spesso chimeriche. Ciò che stupisce, soprattutto, è la sua facilità nell’elaborare teorie astratte. Le operazioni logiche cominciano
a venir trasposte dal piano della manipolazione concreta al piano delle idee pure espresse in un qualsiasi linguaggio (delle parole,dei simboli matematici ecc.), ma senza l’ausilio della percezione, dell’esperienza o anche solo della convinzione.
È a questo punto che diviene possibile la costruzione di sistemi che caratterizza l’adolescenza: le operazioni formali conferiscono al pensiero un potere completamente nuovo, che lo porta a staccarsi e a
liberarsi dal reale, per consentirgli di edificare teorie a suo piacimento” 9. E con queste ipotizza di trasformare il mondo. Questa disposizione dell’anima verso le idee pure, propria dell’“età metafisica”, è la spiritualità stessa, che però non implica necessariamente alcun senso metafisico-teologico. La spiritualità è sentita come la presenza delle presenze.
Sebbene sia inaccessibile alla fisica dei sensi la nostra “materia” introduce il concetto-limite di trascendenza (la trascendenza è il carattere essenziale dell’assoluto), cioè qualcosa di fondamentalmente incommensurabile sia al mondo finito sia alla conoscenza umana. Eppure è questa l’unità della condizione dell’esistenza.
A che serve l’etica? Oggi ci basta sapere dalle tecniche e, a volte, dalla tradizione che cosa siamo, ma rinunciamo molto presto a sapere chi siamo. Intelligenti forse e sradicati di certo! “È mai possibile che l’essere venga distrutto nell’uomo?” Ernst Jünger crede nell’inviolabilità essenziale dell’uomo, che quindi vi
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Due esercizi eretici 9 Gianni Borgna, Il mito della giovinezza, Laterza. possa essere in lui un nucleo invulnerabile, un sancta sanctorum, preservato da sempre dall’accadere degli eventi. Tuttavia il timore panico
di fronte alla propria fragilità e allo scandalo estremo del morire è il terrore che lo consegnano devotamente nelle mani delle tecniche. “Il panico che oggi vediamo dilagare ovunque è già espressione di
uno spirito intaccato, di un nichilismo passivo che stimola quello attivo. Niente di più semplice che intimorire un uomo già persuaso che tutto avrà fine nel momento in cui verrà meno la sua fugace presenza
sulla terra. I nuovi padroni di schiavi lo sanno, e solo per questo danno tanta importanza alle teorie materialistiche”10.
Da parte mia confido nel potere rivelativo del pensiero intorno a quel rapporto tra finito e infinito su cui insisto da tempo. Dovunque c’è un’immanenza dell’assenza, “una forza oscura” che insiste sull’esistere
e che pare impossibile non sentire anche senza attendere quei momenti verticali di grazia o di sofferenza che tutti hanno prima o poi.
Eppure si fugge nel depensiero piuttosto che affrontare l’inquietudine di ciò che rivela. Non ci attendiamo una rivelazione ma bensì un’economia dell’esistere che sappia utilizzare la ricchezza negativa del mistero.
La credenza fondamentale della modernità è il divenire delle cose, ossia che le cose (enti ed essenti) escano dal nulla e vi ritornino11, ed è solo pensando che le cose siano nulla, potendo divenire
nulla in ogni istante, che si può giudicare inutile ogni riflessività sulle cose ultime.
Questo è il bivio decisivo: o siamo tutti morti o siamo tutti eterni. Da un lato c’è l’emergere di una autocoscienza, dall’altro l’intuizione di una sacralità di tutto ciò che c’è, ma di fronte a questo tutto
ognuno è veramente solo, con la medesima inadeguatezza di Agostino, di Eckhart o di Kant. Proprio la religione potrebbe convincerci – in quanto fede – che le cose esistano ex nihilo, appunto poiché create dal niente ossia da Dio, essendo egli anche il Nulla.
Eppure la modernità vive questa aporia: crede nel divenire delle cose – che cioè sporgano dal nulla e vi riaffondino – e d’altro canto non crede nella creazione – e cioè che sia vano poiché impensabile supporre un inizio degli inizi, gli basta ipotizzare una catena di inizi (e di conclusioni).
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10 Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi. 11 Emanuele Severino. Se si crede che cosa provenga da cosa, che l’ente provenga dall’ente, il mistero dell’origine resterebbe intatto, basterebbe una sospensione
fenomenologica perché l’ipotesi veritativa divenga plausibile, mentre il pensiero scientifico ammette che la conoscenza non può che essere “una ignoranza informata”.
Così morire non sarebbe un ritorno nel nulla, né l’esserci scadrebbe di stato fisico12 – all’ombra di Lavoisier –, ma rimarrebbe sempre in una condizione limbica trascendentale se pure supposta insignificante
per la vita reale. Infatti la decenza intellettuale consente di sostare davanti al mistero senza alcuna pretesa di svelarlo, solo di porci in ascolto. Ma in prossimità del mistero, di fronte allo stupore, ci si può esprimere solo
in canto (nell’arte) o in qualsiasi forma di preghiera. È proprio il suo portato latente, lo spazio vuoto, che qui interessa. Certo le stelle ci appaiono impassibili, ma chi non le vede o le pensa13 perderà la voce dell’infinito, la traccia dell’illimitatezza: ciò che è antitetico in realtà è complementare (bene e male, spirito e materia, immensità e umana esiguità).
L’assenza di spiritualità è anche la scomparsa della Natura, la sua insignificanza rispetto alla vita, la mancanza di stupore verso l’infinitesimo della fisica o verso il possibile stesso dell’essere consegna l’esistenza a una mera durata virtuale.
“Non è un caso che non appena il nostro sguardo si posa commosso e affascinato su fiori e alberi, subito cominciamo a liberarci da tutto quanto ci tiene avvinti alle cure del tempo”14.
Per esprimere il vuoto c’è bisogno della densità della materia (della presenza) e solo attraverso questa si può risalire al vuoto stesso, alla mancanza, in fondo si tratta di un percorso verso l’integrità. Il suo portato,
dicevo, ci apre quasi inaspettatamente alla terrena dimensione del-101
Due esercizi eretici 12 È imbarazzante la lunga insistenza della religione sulla resurrezione dei corpi, anche ammettendo che si tratti di una metafora semplificatoria per i più, che dire della risoluzione del Concilio di Nicea, credo, dove vecchi sagaci quanto riluttanti dal dover trascorrere l’eternità in una casa di riposo, decisero che il corpo debba risorgere alla confortante età di 33 anni – il tempo terreno del Cristo.
Così vedremo miliardi e miliardi di corpi – com’erano nella giustizia del caso – mentre la mente verrà riscattata dalla Grazia assoluta, si tratti pure della mente di Lucy o di un cerebroleso.
13 Come per C.E. Gadda ne La cognizione del dolore, che guardava le stelle “ma non le vedeva neppure, nella banalità superflua del cielo”.
14 Ernst Jünger, Ibid.
l’etica, come in quel ricercare nel cielo le tracce di un ordine terrestre, dall’infinito all’entità finita, a una umana “De hominis dignitate”15.
La tensione spirituale è così la sola via per l’etica. L’unica possibilità perché l’etica non sia solo una convenienza sociale, un mero fatto efficienza (come tutte le deontologie), oppure una consolle tattica
per ogni opportunismo e per ogni coscienza, appunto intimo fondale per tutte le ipocrisie.
Il fatto che memoria e ratio abbiano a disposizione le più alte risoluzioni morali del passato non è di per sé sufficiente perché siano condivise e men che meno attuate: non soltanto il più impraticabile dei
precetti, “ama il tuo nemico”, ma anche il più accessibile e in fondo il più conveniente, “ama il prossimo tuo come te stesso”, resterà inascoltato se ogni individuo non lo farà suo, con ciò ipotecando la sua
radicale trasformazione.
C’è sempre lavoro per il pensiero trascendentale. Il sapere di non sapere posto di fronte alla vertigine del nostro incognito consistere permette che esista la ragione morale non solo nel senso di giustizia ma in quello di autolimitazione e di misura.
L’etica è appunto trascendentale perché “ciò che può essere detto è limitato all’esistenza o non esistenza di stati di cose, che sono senza eccezioni contingenti, allora le proposizioni etiche sono, come quelle
logiche, prive di senso. Esse mostrano, ma non possono dire […]. Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla che è più alto”16. Perché allora insistere
sull’etica? E soprattutto su un’etica che ha senso solo in quanto trascendentale?
L’etica è trascendentale perché riconosce il sacro nell’uomo, il suo assoluto. Ed è il sacro che pone domande guardando al di là dei nostri limiti e dei nostri vincoli. L’etica è veramente l’ultima speranza dopo l’eclisse del religioso. Ma dalla trascendenza l’etica ritorna terrena per divenire come in una eco, sestante interiore, limitazione alla nostra miopia e alla presunzione del pensiero calcolante.
L’infinito, l’assoluto, il trascendente sono parole che la logica considera insensate. Eppure le cose ultime sono nominate perché possiamo pensarle per quanto formalmente indefinibili, è un paradosso logico: il nostro illimite ci eccede, ossia sopravanza ciò che in noi è de-finito, ma la cosa finita pensa l’infinito fino a credere di esserne
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15 Pico della Mirandola.
16 Ludwig Wittgenstein, Tractatus. parte. Ma credere non è sapere, eppure già sapere di non sapere è l’origine del moto pensante.
Sapere di essere un mistero per noi stessi, di essere più intimi all’indicibile che al dicibile è – come sanno bene i mistici e i poeti – il più alto rimedio all’angoscia esistenziale e al dolore.
La “razionalità” della morale è così la parte sensibile del soprasensibile, ed essa non ci ferma affatto dal lanciare nello spazio reale e metaforico le sonde eternamente perfettibili, ossia sempre imperfette,
che attraversano un lembo infinitesimale dell’universo e dell’ignoto. Vedere o guardare Il matematico Georg Riemann partendo dall’idea – rivelatesi poi così feconda – che l’universo può avere una estensione finita e tuttavia
non avere un confine, quindi finito ma illimitato come la superficie di una sfera, arrivò a conclusioni talmente simili a quelle espresse da Dante oltre cinque secoli prima da risultare inquietanti.
Dante nel suo viaggio, dopo aver raggiunto la parte più estrema del nostro universo riesce a vedere “fuori”, e sporgendosi vede l’interno di una ipersfera “parallela” trovandosi sulla superficie esterna dell’universo-Empireo. Proprio come per Riemann che ipotizzò che il limite esterno del nostro universo sia anche il bordo di un “nuovo universo” (il cui spazio sarà per noi a curvatura negativa), infine pensò che i due universi potessero non sovrapporsi e costituire insieme l’intero universo. La visione di Riemann è naturalmente quantitativa, cioè scientifica, e quella della poetica dantesca è sostenuta dalla certezza della fede, eppure...
Per noi pensare il mistero senza fondamenti possibili è altrettanto vertiginoso ma in ciò non si può non scorgere qualcosa di sublime.
Pensare il mistero è pensare noi stessi, oltre la lente della ratio, non come un nulla disperso in quegli abissi, ma forse come qualcosa di intimamente connesso con essi ed egualmente decisivo. Siamo sempre
ai piedi della montagna, che si chiami assoluto, inconscio o sapere cognitivo.
Tutto è come in bilico tra rivelazione e nascondimento così i sentimenti sembrano affacciarsi all’espressività del volto. È Emmanuel Lévinas che elabora in senso mistico l’emergere alla vista del volto, il suo vulnerabile concedersi. Ma è raro che si possa percepire la sua portata veritativa interrompendo la nostra quotidianità. Per poterne parlare dobbiamo risalire a 103
Due esercizi eretici esperienze radicali. Primo Levi nel campo di sterminio sa di non essere letteralmente visto se non come entità numerica. Il suo aguzzino, così agito dalla perfezione nullificante, interdisce ogni possibilità di riconoscerlo in quanto uomo e, di contro, di riconoscersi in quella similarità dove il mistero si oggettiva nell’unicità di un corpo visibile.
All’opposto dello specchio il volto si espone in quanto incontro e rivelazione: “incontro, e non conoscenza; rivelazione, e non svelamento”.
Quando l’ufficiale Emilio Lusso inquadra nel suo mirino il nemico, è il volto di questo che gli si rivela, e inaspettatamente per lui diventa il suo prossimo, è il volto dell’altro che disdice il suo mandato e convoca ciò che gli ingiunge di rompere “l’incantesimo” di quella regola-dovere, l’infinito invalicabile di quel volto che lo avvince in quella attinenza in cui precipita tutto il mistero dell’uomo.
Qui è l’assoluto (o il bene stesso) che incontra il valore terrestre dell’etica, ossia quell’esperienza che attraverso un impulso empatico ci spinge a riconoscere l’umanità nell’uomo, l’assoluto immerso nel tempo.
“Bisogna che qualcosa avvenga all’io, perché questo cessi di essere una ‘forza che va’ e si desti allo scrupolo”17.
Sul fondale del soprasensibile vi sono due varchi. Accessi che forse solo il pensiero poetante sa riconoscere: uno è il cielo sopra di noi, il cui infinito non è quell’origine del tempo nell’universo dei fisici,
ma è propriamente l’Assoluto, l’Uno dell’Uni-verso. Ciò che nessun telescopio può perforare e da cui nessuna eco potrà ritornare. È l’indicibile, è il corpo mistico del mistero, ma se sapessimo vedere
diremmo che tutto “il mondo è, è il Mistico”.
L’altro varco è nei nostri occhi, il volto del volto, la pupilla che vediamo e che ci identifica nel riflesso cognitivo, esso non accede solo alla mente dato che l’occhio già pensa, ma ci mostra il nostro stesso
incognito, ci indica molto di più di quello che psicofisiologicamente può vedere.
È in quell’incrociarsi di sguardi che può procedere ogni possibile reciprocità tra due abissi di singolarità dietro a una medesima consistenza.
Tutto passa da qui. Quando il volto di chi vediamo riesce a essere veramente visibile,
a rispondere al nostro sguardo, – quando è evento, allora come in trasparenza si può scorgere la filigrana della sacralità dell’esistere, la sua “ombra profonda” che la pervade e per converso che ci pervade.
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17 Alain Finkielkraut.
Nella vulnerabilità del volto e del corpo – che è la permeabilità al mondo e al tempo – si inscrive via via la nostra esperienza cioè la nostra unicità e insieme ad esse si rivela la profonda similarità dell’esserci.
Basti pensare che il piacere, il dolore, la morte altrui sono raccolte in noi nella forma di identificazione, ed è la nostra ferinità di fronte alla morte di un altro che ci affretta a distanziarla da noi, in un inconfessabile moto liberatorio, per il fatto che essa non ci riguarda.
Proviamo ebbrezza e vertigine quando altri affrontano pericoli mortali, perché la morte altrui ci ricorda di essere vivi (in quel momento non vediamo l’Altro, vediamo la specie).
L’universale solitudine di fronte agli assoluti sembra chiedere senza voce, di non lasciare sola nessuna persona rivelatasi nel simulacro del volto.
Così il volto è l’icona della trascendenza che attraversa un comune destino, cioè qualcosa che oltrepassa gli impulsi e i sentimenti che vincolano l’individuo al mondo: l’amore, la repulsione, la compassione,
la pietà…
Io posso vedere il volto e il corpo dell’altro come attraverso una consapevolezza resa visibile e tattile sul confine invalicabile tra sensibile e soprasensibile (e qui paradossalmente la parola più definitiva
e pertinente è “mistero”).
Anche se tutte le apocalissi si compissero, insieme alle loro giustizie, resterebbe in uno spazio ulteriore la traccia significante dell’Accaduto, come la luce di una stella estinta il cui convoglio di quanti
e di onde attraversa ancora lo spazio.
Bisogna ripensare con una nuova “dixtentio animae” questa traccia dell’esistenza. In questa luce tutto potrebbe apparirci eterno, ingenerabile, incorruttibile e necessario nell’iconostasi del sapere di non
sapere: il già stato e tutto il corteo di ciò che è compiuto e che avverrà per mano nostra e che resiste a ogni morte smentendo quella condanna faustiana dell’imperfezione del creato. “Tutto ciò che esiste merita di morire”.
Ma è proprio l’imperfezione la stessa dinamica di ciò che esiste mentre è l’indifferenza che ci spinge sul bordo del nulla.
2° esercizio: la bellezza E poi c’è la bellezza. L’altro nostro tema che si rivolge al non plus ultra della visione, a ciò che mostra le differenze attraverso cui le cose si affacciano alla vista e vengono amate o rifiutate.
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La bellezza è l’altro mistero, ma questa volta l’incognita è legata alla nostra percezione e ha a che vedere, come ben sappiamo, con le emozioni.
Sono queste, insieme ai valori, che danno intensità e densità all’esistenza, esse ci com-muovono.
“Solo ciò che stimola la vita esiste veramente” (ancora Faust), nel senso che ci apre la mente alle sue infinite possibilità e nel senso che non è detto che la vita esista come tale senza che sia sollecitata a esserlo.
Provate a fare a meno dell’emozione, ad annichilire il desiderio, l’aspettativa di più vita o la semplice allegria18 e vedrete che tutto si ferma e si oscura.
Viceversa l’emozione della bellezza, il suo potere di ex movere sta nella stessa luminosità delle cose, ed è come se ci chiamassero.
Ma della bellezza si deve parlare se si vuole che esista veramente e occupi il nostro tempo con la sua seducente positività al posto delle ombre, il tempo infatti è un contenitore finito che può essere riempito
da una cosa o da un’altra, un terzo non è dato. Ed essa è dovunque, nell’innumerevole volto delle cose, nel lusso dell’arte, nell’orgoglio del pensiero, nel volto e nel corpo dell’amore.
La bellezza è il messaggero intransigente della pulsione sessuale nel sovrapporsi del desiderio alla sua immagine. La bellezza evoca sempre la dimensione dell’eros, il piacere dell’anima sessuata che incontra
ciò che sconvolge la mente e l’ordine dell’abitudine attraverso le pulsioni del corpo.
Essa sembra possedere la potenza disarmante dell’esattezza. La sua apparente semplicità eccede ogni interpretazione, si dona alla sguardo con innocenza senza bisogno del concetto (come abbiamo visto nella musica) e al cui richiamo non si può sfuggire: è infatti il corpo amabile del mondo, come il corpo sessuato del desiderio amoroso.
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18 “Quando non c’è allegria, l’anima si ritira in un angolo del nostro corpo e ne fa la sua tana. Ogni tanto tira un urlo di dolore e mostra i denti alle cose che accadono. E tutte le cose ci sembra che si muovano sotto il peso del loro destino e che nessuna abbia abbastanza forza per trascurarlo. La vita ci offre un panorama di universale schiavitù. […] – Niente, nessuno manifesta maggiore vitalità di quella strettamente necessaria per alimentare il suo dolore e reggere in piedi la sua disperazione. […] Percepiamo con straordinaria evidenza la linea nera che limita ogni essere e lo chiude dentro di sé, senza l’infinito che l’uomo contento poneva dentro ciascuno. Questa è la scoperta che facciamo per mezzo del dolore come attraverso un microscopio: la solitudine di tutte le cose”. José Ortega y Gasset, L’origine sportiva dello stato, SE. La bellezza è emotivamente autosufficiente, nel senso che non le serve altro che se stessa per catturarci, essa ci appare come tale all’inizio della percezione e non solo dopo averla compresa, anzi non c’è affatto bisogno di comprenderla.
Ma oltre a indurci in tentazione la bellezza ci invita anche a re-immaginare e a ri-creare il volto delle cose (proprio come accade nell’arte).
Scioglie l’indifferenza e la distrazione e tutto avviene attraverso il piacere, senza fatica, in un beato desiderio di durata. Proviamo piacere a vedere la bellezza, desideriamo trattenerla nello stupore, vivere con lei e in lei, infine essere la bellezza stessa. Dove c’è la sua forma luminosa recedono l’assedio del banale, gli assoluti della finalità e l’avidità allenta la sua presa.
In questo nucleo generativo riposa il discorso infinito comune a tutti gli uomini; le parole senza perché che la Bellezza può ancora esprimere senza spiegarle.
Parole che ci liberano dalla prolissità delle cose, esse sono invece l’essenziale!
La percezione della Bellezza rende più pura l’attenzione, addensa il presente sulla cosa senza rinviare ad altro. L’attenzione è rapita e al tempo stesso resa più intensa: è come se vedessimo l’essenziale stesso, nella sua forma esatta, che si fa presente. Sebbene il suo darsi ci induca a trattenerlo oltre l’istante, come se si trattenesse il respiro.
Il suo consistere è l’adesso. Nell’istante “si riversa una ondata di senso” che interrompe il tempo cronologico.
Con la bellezza il tempo non ci appare più friabile – catena di frammenti incessanti – e l’adesso sembra avere finalmente dignità esistenziale e icastica autosufficienza. Insomma, è un istante perfetto.
Ma soprattutto con l’evento della Bellezza accadono due cose: scompare l’ordine del pensiero calcolante che obbliga tutto il nostro tempo ad essere in funzione di processi finalizzati e si placa l’anelito infinito
ossia inappagabile del piacere, del bene, della felicità, della durata… Il punto è che è impossibile dire cosa sia la bellezza e ancora di più insegnarla quando è già insidioso parlarne, visto che da tanto
tempo è stata rimossa dal discorso, poi perché la nozione promette di sfuggire nel trascendentale, territorio off limits per l’intransigenza dei vincoli e delle necessità.
L’opposto del bello non è il brutto – anzi il brutto possiede forse una maggiore riserva di senso rispetto al bello. Il suo contrario è invece l’indifferenza ed è la disattenzione, che sono l’annuncio di uno stato di inerzia. È come uno sbiadirsi della nostra stessa presenza nel
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mondo che ritroviamo anche nel parlato sempre più povero. La parola è umiliata19 è l’incapacità di parlare con il mondo e con l’esistenza, di chiamare per nome, cioè con pertinenza e devozione, l’innumerevole
suo apparire. La bellezza è il grande catalizzatore di stati emotivi che – come ho detto – muovono l’invidiosa risposta ontologica della creatività20.
Ciò che conta è che la bellezza è uno dei grandi promotori della vita in quanto vocazione alla diversità. Essa ci allontana dall’uniforme e dall’equivalente.
Ma ciò non riguarda solo il sé, il singolo, ma riguarda soprattutto il suo consistere sociale. “Il modo in cui immaginiamo le nostre città, il modo in cui progettiamo i loro scopi, i loro valori, e aumentiamo la
loro bellezza, definisce il Sé di ciascuna persona di quella città, perché la città è l’estensione tangibile dell’anima comunitaria. Questo significa che troviamo noi stessi entrando in mezzo alla folla. […] La
strada della città, è il Sé”21. La capacità di vedere le differenze secondo la loro qualità è la precondizione per rappresentare anche noi stessi nello specchio dei sensi che tutto riflette. Solo così l’ininterrotto flusso in cui le cose appaiono può sfuggire all’indifferenziato e alla nientità: tutto infatti può essere visto e non visto.
Accedere al mondo attraverso la vita estetica è in un certo senso farlo esistere, proprio perché è colto in base a un giudizio selettivo (che è sempre una forma di creazione).
I giovani vivono di transfert, desiderano la bellezza e possono disporre di infiniti simulacri estetici, hanno i loro idoli e miti. Questi sono le vie brevi dell’emulazione, visto che non è possibile avere a disposizione
un automatismo che trasformi naturaliter l’esperienza in espressione. Non c’è alcuna Grazia ricevuta che permetta di trascendere ciò che si prova in parola o canto, in qualcosa degno di essere ascoltato.
Una delle fantasie adolescenziali, tipiche del principio di piacere, è appunto quella di possedere già in sé la potenza dell’incantamento.
Dietro tutto ciò c’è come un’inerzia dell’autoaffermazione, che è spesso concepita dai giovani come legittimo diritto.
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19 Jacques Ellul.
20 Forse tale risposta fa semplicemente parte di quella catena filogenetica dei “contenuti a priori dei singoli uomini come esperienze a posteriori dell’evoluzione”.
K. Lorenz, Vivere è imparare. 21 James Hillman, Politica della bellezza, Moretti & Vitali. Cercare l’espressività è quindi il primo passo da compiere e se l’adolescente è sostenuto da una buona dose di presunzione può anche
fare a meno dell’opinione degli altri (evitando così lo spreco di costruirsi falsi sé per lusingarli).
Da qui l’impulso a simbolizzare il proprio orizzonte emotivo. È in questa disagevole ouverture che appare la bellezza, la sua vistosa e pur innocente nudità.
Se l’etica volge a un fine forse imprescindibile e insieme inarrivabile in quanto indica sempre un assoluto (in sé illimitato di fronte a un mondo che è un tutto limitato), la bellezza si volge all’indicibile
là dove le parole non sanno più significare rendendo anche innecessaria ogni interpretazione22. Lì, lo ripeto, ciò che resta è canto o preghiera, senza bisogno di perché.
Differenza contro indifferenza L’arte in genere è l’ineffabile della mancanza di un fine, qualcosa oltre le finalità in cui si muove tutta la fattività umana.
L’esperienza della bellezza è qualcosa di non esperibile: una “traccia al di là dell’esperienza”23. È l’ipostasi di quella mancanza di fine.
Questo orgoglio della produzione umana che è l’arte in fondo permette di contemplare la nostra stessa ineffabilità.
A differenza dello scienziato che interroga la natura, quando il poeta si rivolge allo spirito e all’eterno non può fare nessuna domanda perché non c’è alcun interlocutore. Questo rivolgersi diventa così puro
atto generativo, restando sul bordo dell’ignoto. Se l’arte in senso proprio è “produzione di libertà”, in quanto messa in opera di libertà, poiché dispone ipoteticamente di una infinita possibilità di forme, per così dire ancora dentro il nulla, la bellezza è produzione di trascendenza nella pronuncia stessa del verbo, ossia nel suo farsi evento.
Nella libertà, ossia in tutto ciò che non è predestinazione e vincolo, è nascosta la spiritualità dell’esistenza. Paradossalmente ciò che resta velato rende possibile la nostra libertà. Libera di contemplare in
tutto ciò che c’è il mistero dell’esistere e libera di non vederlo affatto. La Bellezza chiama la spiritualità nascosta nell’essere e nelle cose, e non ci permette di lasciare passare inosservato il cuore dell’e-
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22 Susan Sontag, Contro l’interpretazione, Mondadori. 23 Jacques Derrida.
sistenza mentre viviamo: il suo mistero. Quaggiù è rimasta la Bellezza a cercare nell’infinito le tracce dell’eterno e a portarlo alla luce anche nella più fragile delle cose. Forse anche il pensare è un istinto,
ma un istinto che eccede l’istinto – sub specie aeternitatis – nel senso di una promessa che è da sempre contenuta nel pensare che l’uomo possa superare infinitamente l’uomo. Qui c’è “l’infinito in atto”24.
Con un po’ di buona volontà in questo autosuperarsi possiamo scorgere anche una aspettativa morale (nel suo presupporre un assoluto di giustizia).
“Se oggi interroghiamo il nostro mondo interiore sul suo bisogno più assoluto e originario, la risposta sarà un ‘bene’ in cui la giustizia non è separabile dalla bellezza. Il nostro animo moderno inorridisce
di fronte alle ingiustizie, che malgrado il progresso avvengono nel mondo. Ma inorridisce in ogni senso: orrore è anche la bruttezza che si diffonde in nome di tale progresso. Noi non possiamo non vedere
che i due scempi si compiono indissolubilmente associati”25. L’assenza di qualità estetica rivela sempre una miseria “complessiva” che non fa che svilire sia il dentro di sé, sia il fuori di sé, esponendo
una pornografia delle forme nella loro meccanica primaria26. Ignorare la bellezza è anche un atto di ingratitudine verso la presenza del mondo e quindi verso l’anima stessa, eppure è questa la condizione
abitudinaria della modernità che non vede e non vuole vedere.
La rivelazione della bellezza è che nessuna cosa può valere quanto un’altra: il mondo così come i nostri atti sono fatti di differenze, ossia hanno valori diversi. La bellezza ci chiama alla responsabilità della
scelta, come a partecipare alla creazione di valore e in fondo a essere la qualità stessa.
Per l’etica il valore è la dignità, per l’estetica la scelta della differenza, che è il concetto stesso di bellezza profonda, ciò che contrasta l’indifferenza. Il suo mostrarsi sembra fermare quel tempo che è solo
una sequenza di accadimenti, solo un dato quantitativo.
Le differenze non sono solo in ordine alla forma o al contenuto ma anche rispetto al tempo, a ciò che trasforma le cose. Siamo felici finché abbiamo la speranza di esserlo, ed è un ottimo trucco spostare
la felicità (la sua impossibilità) nel futuro. Ma è necessario che la speranza abbia davanti a sé nuovi inizi, nuove partenze, nuove possibilità. 110
24 Jean-Luc Nancy.
25 Luigi Zoja, Giustizia e bellezza, Bollati Boringhieri.
26 Jean Baudrillard, Il vero porno di oggi è lo spettacolo della banalità. bilità27. La cosa è nota anche in economia e in particolare nell’economia del benessere e nella psicologia sperimentale dove riscontrano
che la sensazione di piacere (se non di felicità) è attivata “non dai livelli assoluti di stimolo ma dai suoi cambiamenti. Le variabili di stimolo quindi sono variabili di cambiamento, quelle associate alla novità,
alla sorpresa, alla varietà, alla complessità e all’incertezza” 28 e quindi a tutto ciò che riguarda il futuro. Restituire Allora che tutto cambi, che tutto venga sovvertito, che la negazione abbia nuova forza.
Spirito e bellezza non sono che entità inattuali eppure il volgersi all’infinito e allo stupore del mondo può opporsi al vuoto dell’anonimia, alla caduta di espansività e di empatia nel collasso emotivo che
distanzia i giovani dalla socialità, pronti per essere solo un bel target del mercato.
Perché allora dovrebbero diventare anche socialmente responsabili, se per responsabilità si intende l’adattarsi a una società senza sogni e che teme il futuro? Che li deposita per anni (e che anni!) nel
limbo opaco dell’istruzione obbligata e sa offrirgli solo occupazioni marginali.
Forse l’immagine dei giovani serve agli adulti perché in essa trapela l’energia vitale un tempo posseduta e la durata stessa colma di promesse. Ma nessuno rinuncia a se stesso. Al più si distoglie nello spettacolo o sogna come un dio di uscire dall’eterno e penetrare nei sentimenti e nelle emozioni delle vite finite29, perché sa che anche l’amore, il più misterioso dei sentimenti, è solo una relazione tra cose che muoiono.
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27 Zygmunt Bauman, L’arte della vita, Laterza. 28 Tibor Scitovsky, L’economia senza gioia, IdeEconomia, Città Nuova. 29 Solo la poesia può spiare i sogni di un dio, come nella prosa fantastica di Ray Bardbury dove una entità delicata spia il sensibile di ogni esistenza: “Cominciò a Viaggiare. La sua mente scivolò fuori dalla stanza, oltre il giardino fiorito, i campi, le verdi colline (…). Avrebbe volato e vagato per tutto il giorno (…) più che telepatia, su per una razza e giù per un’altra. Era l’ingresso nei cani, negli uomini, nelle vecchie, negli uccelli, nei bambini che giocano, negli amanti sul loro letto, di mattina, negli operai madidi di sudore per la fatica, nei cervelli minuscoli e morbidi dei bambini non ancora nati. Dove sarebbe andata, quel giorno? Prese la sua decisione e andò (…)”. Ray Bradbury, Trentaquattro racconti, Oscar Mondadori, 1987.
Eppure in quell’immagine è riflessa l’identità della vita che si rifrange in altri: la vita come unico flusso profondamente indivisa30, che assume tutte le sembianze del possibile ossia dell’eterno nel vincolo intraumano forse di una immensa appartenenza all’Uno.
Intanto una parola occupa, come un rumore di fondo, la mente e attende di essere pronunciata. La parola è “restituzione”. Essa mostra l’assoluto dell’essenzialità che via via abbiamo barattato col suo opposto.
L’anima sorride a chi ha rinunciato al proprio nome per poter essere chiamato amore. La vita infatti è solo la virtù dell’incontro… prima di restituire anche quel nome.
Il testo integrale può essere scaricato dal sito www.fondazionebancaeuropa.org (Ivan Rizzi, Presidente della Fondazione Banca Europa)
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30 Lucrezio, De rerum Natura.