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Se la giustizia si trasforma in uno strumento di potere. Stefano Zurlo, 3 Giugno 2015

 

 

 

 

 

Il magistrato Guido Brambilla accusa la propria categoria in un pamphlet coraggioso che spiega tutti i limiti, anche filosofici, dei nostri tribunali e dei nostri giudici...


Il paziente è stato visitato infinite volte. I troppi fascicoli. I processi che non finiscono mai. Le sentenze sul filo della politica. Ma forse una vera diagnosi della malattia non è mai stata fatta; o meglio tutte le spiegazioni e le polemiche hanno ridotto l'angolo visuale sui mali, e che mali, della giustizia italiana.

Oggi, in un saggio affascinante e controcorrente, Guido Brambilla, magistrato al tribunale di sorveglianza di Milano, critica senza peli sulla lingua e senza alcun riflesso corporativo la categoria cui appartiene. Ma nel volume Itinerari della giustizia (Guerini e Associati, pagg. 144, euro 14,50; prefazione di Eugenio Borgna) si sforza anche di andare in profondità, cercando le cause ultime dei guasti al crocevia fra filosofia, religione, diritto. Pagine spiazzanti, ancor di più se si pensa che a scriverle è un magistrato di rito ambrosiano. Ma Brambilla non si preoccupa di compiere un delitto di lesa maestà, non ama i toni retorici e scortica tante certezze. La giustizia, ci spiega, si è separata dal diritto che è diventato di fatto uno strumento di potere. E il diritto, a sua volta, ha divorziato dall'esperienza.

Come si vede, la riflessione, vertiginosa, spazia avanti e indietro lungo i secoli e diventa una riflessione sulla crisi dell'uomo occidentale: il malato, ecco la conclusione antropologica cui il giudice approda, è l'uomo e non solo il giudice.

Potrebbe sembrare un tema bellissimo e dotto, buono per qualche convegno fra tecnici della materia ed esperti vari, ma Brambilla non si ferma all'affresco generale. No, seguendo la lezione di don Giussani, prova, sia pure per grandi linee, a mettere in collegamento il tema di fondo con la realtà quotidiana, il cielo con la terra, il generale con il particolare. E arriva a prendersela con il buonismo dei suoi colleghi che giustificano a volte il comportamento criminale o lo trasformano in una sorta di malattia, di devianza psichiatrica o di deficit che toccherà alla scienza disinnescare e incasellare.

E invece in questo modo, secondo il magistrato, si dimentica la responsabilità di chi delinque, si cancella la libertà della persona, si perde per strada, per dirla tutta, la dimensione non simbolica ma assolutamente reale del peccato originale.

Il giudice, o meglio l'uomo che dovrebbe amministrare la giustizia, ha oggi un'idea incerta di cosa sia il Bene. E questo perché ancora prima non sa bene come declinare parole altisonanti e irrimediabilmente astratte, anzi straniere, come ragione e verità.

Si ritorna così al punto di partenza. La ragione: «Non è più una finestra spalancata sulla realtà ma un criterio di misura della medesima, un'elaborazione di concetti finalizzati a una sua manipolazione». E ancora, a cascata: «Il diritto non è più strumento di una giustizia da ricercare nell'oggettività di un ordine, ma è il diritto del soggetto, il mio diritto». Siamo così ad un altro punto concreto e infiammato della crisi dei nostri tempi: la proliferazione incontrollabile dei diritti. Con leggi e sentenze che si attorcigliano e si contraddicono sui diritti dei gay, delle lesbiche, dei malati terminali, delle donne che vogliono affittare l'utero, degli animali e via elencando in un elenco interminabile e sempre più affannoso.

Brambilla, che con molto coraggio e un pizzico di temerarietà è partito da lontano, addirittura dai tornanti che segnano il passaggio dal Medio Evo all'epoca moderna, coglie così un altro aspetto del labirinto contemporaneo: la riduzione della ragione porta a smarrire un'unità di misura comune. E allora il metro del diritto si allunga e si accorcia passando da un tribunale all'altro, da un giudice all'altro, da una città all'altra. E quello che sostiene il primo giudice può essere smentito dalla corte d'appello e poi ancora sconfessato dalla cassazione in un estenuante balletto senza fine. E forse senza soluzioni a portata di mano: nei giorni scorsi nel corso di un dibattito organizzato a Monticello Brianza dal centro culturale Charles Peguy Claudio Galoppi, a sua volta magistrato e membro del Csm, ha dato ragione a Brambilla e ha osservato che la «definizione dei diritti è il tema dei temi sul tappeto della giustizia oggi». Un'analisi sorprendente e ancora una volta non scontata per chi ha trascorso anni e anni sulla frontiera del conflitto fra giustizia e politica, fra berlusconismo e antiberlusconismo, fra giustizialismo e garantismo.

Sia chiaro: Brambilla non è un nostalgico del passato che fu, non vagheggia ritorni impossibili alla società premoderna e non sogna una qualche restaurazione, come i Borbone nel periodo napoleonico. Sa però che bisogna ricomporre l'uomo per ricomporre, almeno in prospettiva, la grande frattura dentro la giustizia.

L'esatto opposto di quel che si continua a fare con le forbici dello scetticismo: ritagliare e sminuzzare e ritagliare ancora i troppi coriandoli di un puzzle ormai diviso in migliaia di frammenti non più accostabili l'uno all'altro.

L'autore, al termine di un percorso alto e difficile ci disegna una propria mappa: «La giustizia è dare a ciascuno ciò che lo fa essere veramente se stesso».

Poi, appoggiandosi a Paolo VI, ci offre un'altra immagine: «La giustizia è la misura minima della carità».

Di questi tempi ci accontenteremmo di molto meno.

Stefano Zurlo

Mercoledì 3 giugno 2015

 

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