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NO TAX AREA E FLAT TAX: RICETTA PER L’ ECONOMIA

 

 

 

 

 

La proposta di introduzione di una soglia di esenzione fiscale elevata (No Tax Area), congiuntamente alla previsione di una aliquota unica (Flat Tax) rappresenta una delle poche ricette in grado di ridare fiato alla competitività dell’Italia e ridurre le sperequazioni del Paese.


 

I benefici derivanti dalla semplicità di un sistema fiscale contraddistinto da un’aliquota unica sono di facile intuizione. Essa ridurrebbe l’incentivo ad evadere ed eludere il fisco, permettendo così, in secondo luogo, enormi risparmi sia per i contribuenti (che non sarebbero più obbligati a dedicare tempo e denaro per compilare la dichiarazione dei redditi) che per lo Stato, il quale potrebbe ridurre fortemente il budget e l’organico degli Uffici preposti ai controlli fiscali. Inoltre, una maggiore semplicità permetterebbe ai contribuenti di avere un’immagine più nitida del sistema di tassazione e quindi di spesa, con evidenti benefici sul controllo democratico dell’operato del governo.

Da più parti però il sistema appena descritto viene rifiutato con diverse motivazioni, spesso inconsistenti. La risposta più efficace per confermare gli aspetti positivi e confutare i dubbi sulla Flat Tax risiede nella esperienza dei Paesi che hanno già adottato l’aliquota unica. Gli effetti in quei Paesi sono stati analoghi: crescita economica e crescita degli introiti fiscali.

Il primo vantaggio della Flat Tax riguarda la sua intrinseca semplicità. Un’aliquota unica permette infatti ad ogni famiglia di calcolare l’imponibile, e quindi le imposte dovute, senza dover ricorrere a consulenze esterne e a pagine di moduli delle quali si ignorano i contenuti e il significato. L’argomento non è sicuramente di secondaria importanza visto che in periodo di campagna elettorale per le elezioni politiche tedesche, Paul Kirchhof – indicato dal candidato Cancelliere Angela Merkel come ministro delle Finanze in caso di vittoria della Cdu – ha individuato proprio nella semplicità della Flat Tax la ragione principale per la sua introduzione in Germania.

La prima obiezione che generalmente viene mossa contro la Flat Tax riguarda il mancato rispetto del principio di progressività: ossia, come dice anche la nostra Carta costituzionale, che a livelli di reddito maggiori deve corrispondere un livello di tassazione maggiore. Questa accusa risulta però infondata: essa non considera infatti la possibilità che insieme alla Flat Tax venga istituita proprio una No-Tax Area, ossia una soglia minima al di sotto della quale il reddito non è tassato: così operando il sistema della Flat Tax assume il carattere della progressività.

È sufficiente formulare un semplice esempio numerico per cancellare ogni dubbio: dati due contribuenti A e B con reddito di 20mila e 100mila euro rispettivamente; e considerando una no-tax area di 10mila euro e una aliquota unica del 20 per cento, A dovrà pagare al fisco 2mila euro (il 20 per cento di 20mila-10mila), mentre B 18mila euro (il 20 per cento di 100mila-10mila). Calcolando l’aliquota media pagata dai due contribuenti (il rapporto tra le imposte pagate e il reddito totale) si può vedere come la Flat Tax risulti assolutamente conforme al principio di progressività: il contribuente B (quello più ricco) paga infatti un’aliquota (18 per cento) superiore a quella di A (10 per cento).

Non è un caso che una delle più importanti riforme fiscali implementate in Europa vada proprio in questa direzione: secondo i calcoli del ministero delle Finanze austriaco con l’abbattimento delle aliquote introdotto nei primi anni del 2000 “i redditi medio bassi in particolare [...] saranno i principali beneficiari [...] Su 5,9 milioni di occupati, 2,55 non pagheranno più alcune tassa sul reddito”. E lo ricordiamo per non lasciare spazio ai dubbi: l’Austria ha ridotto, non aumentato, le proprie aliquote fiscali.

Se si guarda inoltre all’ evidenza empirica, si vede chiaramente come i tagli delle imposte abbiamo storicamente trasferito l’ onere fiscale sui più ricchi: prima della riforma fiscale di Ronald Reagan, nel 1981, l'uno per cento dei contribuenti americani più ricchi garantiva il 18 per cento del gettito fiscale delle imposte sul reddito. Nel 1989 ne garantiva il 24 per cento. Nel 1980 il 5 per cento dei contribuenti più ricchi pagava il 35 per cento degli introiti derivanti dalle imposte sul reddito. Nel 1990 ne pagava il 49 per cento. Infine, se nel 1981 il 10 per cento più ricco versava il 44 per cento delle imposte totali sul reddito, nel 1989 la sua quota era passata al 55 per cento. E lo stesso era già accaduto negli anni Sessanta, in seguito alla riforma fiscale di Kennedy, come ha dimostrato Daniel Mitchell.

Fino a questo punto si è ragionato intorno alla equità e alla progressività di un sistema fiscale basato sulla Flat Tax. Un argomento non meno importante è quello relativo alla crescita economica: laddove sono stati adottati, i sistemi fiscali ad aliquota unica sembrano infatti aver contribuito in modo determinante alla crescita del prodotto interno. Ecco il riassunto breve di queste esperienze. La Flat Tax è stata adottata da numerosi Paesi dell’Est europeo: il caso più emblematico è quello di Estonia, Lettonia e Lituania, i primi Paesi a seguire la lezione di Rabushka. Per fortuna, quel vento non si è arrestato sul Baltico, e anzi si è esteso, tanto che la concorrenza fiscale degli altri Paesi baltici ha spinto Tallin a ridurre ulteriormente la pressione fiscale, innescando un circolo virtuoso per la crescita della regione. E non è un caso che la Flat Tax sia poi stata adottata da altri Paesi dell’Est e la sua introduzione sia stata discussa anche in Polonia e soprattutto in Germania.

Il Pil dell’Estonia è cresciuto quasi dell’80 per cento nei dieci anni successivi all’introduzione alla Flat Tax, mentre quello di Lettonia e Lituania è cresciuto di oltre il 70 per cento. Una performance economica non altrettanto straordinaria ma certamente positiva è stata registrata da Serbia e Ucraina.

La Serbia, rispetto ad un tasso di crescita del 3,3 per cento e dell’1,5 per cento registrato nei due anni che hanno preceduto l’introduzione della Flat Tax (2003), è passata all’8,5 per cento nell’anno successivo.

In modo analogo, in Ucraina da un tasso di crescita di poco superiore al 4 per cento si è passati ad una crescita del 7 per cento, nonostante le turbolenze politiche che hanno afflitto il Paese in quell’anno.

Lo stesso è avvenuto poi in Russia, come ha notato Arthur Laffer, dove, da un tasso medio di crescita dell’1,1 per cento nei cinque anni che hanno preceduto questa riforma, l’economia è passata  ad un tasso medio di crescita del 4,7 per cento negli anni successivi.

A questo punto è d’obbligo farsi una domanda: esiste una relazione tra taglio delle imposte e crescita economica? Un richiamo agli illuminanti lavori di Arthur Laffer proprio su questo tema ci permette di affermare senza esitazione che questa relazione esiste ed è evidente. La riduzione delle imposte favorisce infatti la crescita dell’offerta di lavoro che a sua volta si ripercuote immediatamente sul prodotto del Paese. Probabilmente neppure Laffer potrebbe essere in grado di convincere certi avversari della riforma fiscale, che più che argomenti affastellano pregiudizio.

Eppure è proprio un uomo politico insospettabile di liberismo come Vincenzo Visco a riconoscere che “l’eccesso di progressività può determinare un disincentivo al lavoro, in quanto di fronte alla prospettiva di dover pagare percentuali elevate e crescenti del proprio reddito gli individui potrebbero preferire lavorare di meno e produrre di meno”. In realtà Visco non dice nulla di nuovo: molti economisti hanno già approfondito questo tema, non ultimo il Nobel Edward Prescott. Osservando quanto è accaduto, laddove la tassazione è stata ridotta drasticamente e in maniera permanente, i risultati sono eclatanti: l’Austria, dopo la poderosa rivoluzione fiscale avviata nel 2004, ha visto la propria economia crescere del 2,4 e del 2,1 per cento contro tassi molto più europei nei due anni precedenti. Lo stesso è avvenuto negli Stati Uniti che, dopo lo stimolo fiscale di George W. Bush, hanno superato velocemente la recessione del 2001, e successivamente hanno archiviato tassi di crescita di primo livello: 2,2 per cento nel 2002, 3,1 per cento nel 2003 e poi 4,4 per cento nel 2004.

Guardando all’esperienza dei tagli fiscali di Kennedy e Reagan si vede come nel periodo immediatamente successivo alla loro introduzione i tassi di crescita del Paese sono letteralmente rimbalzati: gli Stati Uniti crebbero infatti del 5 per cento medio annuo tra il 1961 e il 1968, mentre per quanto riguarda gli anni Ottanta di Reagan ci sembra sufficiente ricordare quei novantadue mesi di crescita ininterrotta senza precedenti nella storia americana. Ciò ovviamente non significa che la riduzione della aliquote sia l’unico modo per garantire la crescita economica: e certamente esistono dei casi (per esempio quando il livello della pressione fiscale è già particolarmente basso) in cui una riduzione delle aliquote può avere effetti limitati se non nulli. Ma questo non sembra essere il caso del nostro Paese che non brilla certo per ridotta imposizione fiscale né per eccesso di offerta di lavoro!

I benefici della Flat Tax non si fermano però alla sola crescita economica: un taglio delle imposte non solo stimola l’attività lavorativa, ma incentiva anche l’emersione del sommerso ed elimina o riduce drasticamente le scappatoie del sistema fiscale che permettono ai contribuenti di eludere il fisco.

Infatti, come ha affermato Visco: “L’evasione e l’elusione fiscale sono fortemente influenzate dalla ‘ripidità’ della curva delle aliquote”. In altre parole: un’elevata tassazione marginale del reddito (elevata progressività) incentiva fortemente l’evasione e l’elusione fiscale. La crescita registrata nel valore delle imposte pagate dai contribuenti americani più ricchi in seguito ai tagli fiscali di Ronald Reagan e di John Kennedy di cui si è parlato in precedenza fornisce un valido esempio di come, a fronte di un minore livello di tassazione, diminuisca l’incentivo ad evadere il fisco: altrimenti non si spiegherebbe la crescita delle imposte pagate dalle fasce a reddito più elevato.

L’andamento delle variazioni annue delle entrate federali degli Usa post riforma fiscale è chiarificatore: da esso si deduce chiaramente come, una volta entrati a pieno regime, i tagli fiscali introdotti nel 2001 dalla neo-eletta amministrazione Bush abbiano prodotto i loro effetti, proprio come già era accaduto con i tagli effettuati da Reagan e da Kennedy. Il taglio delle aliquote ha dunque prodotto una crescita degli introiti e uno spostamento dell’onore fiscale sui più ricchi. Fenomeno al quale si è potuto assistere anche in Russia, in Lettonia, in Ucraina e in Estonia.

Inoltre, la riduzione delle aliquote può spingere gli evasori ad emergere: quando si riduce il differenziale tra il costo dell’evasione (sia in termini economici, sia in termini di reputazione) e il suo beneficio, l’incentivo a evadere cala.

Nel caso della Flat Tax ci sarebbe poi un altro beneficio: l’elusione fiscale verrebbe sostanzialmente ridotta in quanto, abolendo il complicato sistema di deduzioni, non sarebbe più conveniente andare alla ricerca dei suoi vari loopholes (scappatoie) per ridurre il proprio debito verso l’erario. Perché l’Italia possa essere un Paese più “equo”, e quindi perché il sistema fiscale sia realmente “informato a criteri di progressività” come chiede la nostra Costituzione è dunque necessario porre fine a questa situazione oltraggiosa, e abbandonare un sistema fiscale vecchio, iniquo e non più adatto a fronteggiare le esigenze di un’economia globale.

Ciò significa ridurre fortemente il peso dello Stato nell’economia e limitare i trasferimenti solo a favore di chi ne ha veramente bisogno. La Flat Tax potrebbe contribuire al raggiungimento di questo obiettivo in quanto, semplificando il sistema fiscale, permetterebbe ai cittadini di avere un quadro molto preciso di quanto lo Stato chiede loro e di quanto offre in cambio. E ciò potrebbe portare molti contribuenti ad interrogarsi sulla vera utilità di mantenere un livello di spesa in cui i benefici vanno ad una ristretta minoranza della popolazione, innestando così un circolo virtuoso che sicuramente non nuocerebbe alla salute di questo Paese. La Flat Tax contribuirebbe a rendere più equo il nostro Paese non solo riducendo l’onere fiscale sui più deboli, ma anche spostandolo sui più abbienti – riducendo gli incentivi all’ evasione e all’ elusione.

Non è un caso che in tutte le riforme fiscali del dopoguerra (quella di Kennedy all’ inizio dei Sessanta, di Reagan all’ inizio degli Ottanta, quelle in Irlanda, ecc.) la riduzione delle aliquote ha determinato un aumento della percentuale del gettito pagata dai contribuenti più ricchi con conseguente diminuzione di quella pagata dai contribuenti più poveri. I meriti della riduzione delle aliquote e/o della introduzione della Flat Tax riguardano anche la crescita economica e l’incremento delle entrate fiscali. Ciò significa che, dato l’alto livello delle nostre aliquote fiscali, una loro riduzione potrebbe avere effetti analoghi a quanto osservato laddove la riduzione delle aliquote o l’aliquota unica sono state introdotte.

Inoltre, in Italia la tassazione sul reddito garantisce solamente il 14 per cento degli introiti totali dello Stato: un livello che potrebbe essere garantito, per esempio, da una Flat Tax del 14 per cento se non si prevedono esenzioni, o da un’aliquota del 25 per cento con una No-Tax Area, come ha suggerito Alvin Rabushka. A ciò si aggiunga che una riduzione delle imposte avrebbe un effetto positivo soprattutto su uno dei nostri punti più deboli: l’offerta. Infatti solo rendendo più conveniente il lavoro al margine si può incentivare una crescita della sua offerta complessiva.

Certo, in questo caso anche l’ingessatura del mercato del lavoro sembra giocare un ruolo determinante, ma rimane difficile immaginare che gli italiani possano decidere di lavorare di più se il sistema fiscale penalizza il motivo principale di questa loro scelta, la crescita del reddito. Va poi tenuto in considerazione il fatto che l’attuale complessità del sistema fiscale rende più conveniente l’investimento (di tempo e denaro) nella ricerca di efficaci metodi di elusione ed evasione piuttosto che nell’economia reale: finché il tasso marginale di rendimento dell’evasione e dell’elusione sarà nettamente superiore al tasso di remunerazione del capitale o del lavoro, sarà infatti difficile contrastare efficacemente questi due fenomeni.

Detto tutto ciò, bisogna riconoscere che la Flat Tax però non è la soluzione a tutti i problemi. Non aumenterà la produttività del settore pubblico e di quello privato, e non liberalizzerà i settori protetti: una sola misura non può avere degli effetti magici.

Bisogna riconoscere, poi, le enormi differenze tra i Paesi che hanno introdotto la Flat Tax e l’Italia. Tra i quali vi sono però anche due importanti analogie: innanzitutto l’Italia, proprio come questi Paesi alla vigilia delle loro riforme fiscali, ha un’ enorme economia sommersa e, in secondo luogo, “vanta” una pesante eredità del suo passato.

I Paesi che hanno adottato la Flat Tax erano caratterizzati da amministrazioni fiscali così dissestate da non essere in grado di esigere nemmeno parte del gettito dovuto, e l’Italia, con un’economia sommersa di cui si è già parlato, non può certo essere esclusa da questa categoria.

Inoltre con l’introduzione della Flat Tax questi Paesi hanno voluto compiere una drastica svolta rispetto al loro passato. Negli ultimi dieci anni il nostro Paese ha invece preferito procedere a piccoli passi, e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Anche l’ Italia ha dunque bisogno di una svolta, e questa deve innanzitutto mirare a ristabilire la fiducia dei cittadini. Ma sembra difficile che ciò possa avvenire se lo stesso Stato ha poca fiducia nei cittadini medesimi, pretendendo di conoscere meglio di loro come spendere le risorse del Paese.

In secondo luogo è necessario ristabilire la fiducia degli investitori internazionali creando un clima positivo, caratterizzato non solo da un “adeguato” livello di tassazione ma anche da una limitata burocrazia, risultato raggiunto solo dopo l’introduzione della Flat Tax dai Paesi di cui abbiamo parlato in precedenza.

Poiché la sua capacità di generare introiti è direttamente collegata alla crescita del reddito nazionale, l’aliquota unica sembra avere un effetto de-burocratizzante ben superiore agli altri sistemi fiscali. Questi due aspetti (limitata imposizione fiscale e de-burocratizzazione) hanno un ruolo decisivo nel determinare le scelte degli investitori internazionali: e l’Italia mai come in questo momento ha bisogno di capitali internazionali sia per poter modernizzare la sua industria che per far crescere la produttività dei suoi servizi.

Antonio Morgante

Mercoledì 10 febbraio 2016

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