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#unionicivili: intervento in Commissione Giustizia.

 

 

 

 

 

 

ATTI DEL GOVERNO Giovedì 3 novembre 2016.


 

Presidenza del presidente Donatella FERRANTI. La seduta comincia alle 13.45.

Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l’adeguamento delle norme dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni alle previsioni della legge sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nonché modifiche ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la medesima legge sulla regolamentazione delle unioni civili delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti.

Atto n. 344. (Seguito dell’esame, ai sensi dell’articolo 143, comma 4, del regolamento e rinvio). La Commissione prosegue l’esame dello schema di decreto legislativo in oggetto.

Alessandro PAGANO (LNA), intervenendo anche sugli atti del Governo n. 345 e 346, al successivo esame della Commissione, osserva come non sia è facile, per un ordinamento di famiglia e per un ordinamento anagrafico che ruotano da sempre attorno al matrimonio, rimodulare i numerosi istituti chiamati in causa alla stregua della disciplina introdotta dalla legge n. 76 del 2016: dal regime delle iscrizioni e delle annotazioni al diritto internazionale, senza escludere il coordinamento con le numerose e variegate leggi che trattano di famiglia. A suo avviso, la materia è di grande delicatezza, perché interessa lo status e i diritti delle persone, per cui non sono ammesse imprecisioni o grossolanità. Il compito degli uffici dei ministeri con la più estesa competenza sul tema è stato reso ancora più complicato dai tentativi – dei quali vi è traccia in alcuni passaggi dei decreti – di giungere in sede di attuazione della legge a una parificazione fra matrimonio e unione « same sex » non solo sostanziale – quale già è nella legge cosiddetta Cirinnà –, bensì pure formale.

Ciò premesso, con particolare riferimento allo schema di decreto n. 344, osserva come lo stesso si muova in apparenza nel solco di un’applicazione della cosiddetta legge « Cirinnà » non formalmente debordante rispetto alla delega. A suo giudizio, tuttavia, si pongono i problemi derivanti dall’assenza per la registrazione dell’unione civile di forme previste per il matrimonio, come le pubblicazioni, a garanzia della mancanza di impedimenti, con conseguenti e prevedibili verifiche a cura del funzionario dell’anagrafe. In proposito, sottolinea come lo schema di decreto eviti di imitare il matrimonio al momento della registrazione dell’unione civile, poiché mentre per il matrimonio è stabilita la lettura degli articoli 143, 144 e 147 del codice civile, per le unioni civili è sufficiente la semplice menzione del contenuto dei commi che richiamano quegli articoli con riferimento alle stesse unioni civili.

Rileva, inoltre, che il medesimo decreto istituisce un registro a parte per le unioni civili e riprende una serie di norme riguardanti le formalità previste per il matrimonio non estendendole tout court, bensì riscrivendole: il tutto va nella direzione di una disciplina separata fra gli istituti del matrimonio e dell’unione civile, come è stato più volte sostenuto da chi ha voluto la legge, a cominciare dal Governo che su di essa ha posto il voto di fiducia. A suo avviso, se tutto ciò corrisponda a verità, non appare comprensibile la ratio della disposizione di cui all’articolo 1, lettera s), dello schema di decreto, che estende alla registrazione dell’unione civile l’uso della fascia tricolore, previsto dall’articolo 70, comma 1, dell’ordinamento dello stato civile per il sindaco o per il suo delegato all’atto della celebrazione del matrimonio civile, non potendosi la stessa disposizione comprendere se non in un’ottica di parificazione anche simbolica e rituale fra unione civile e matrimonio. Ritiene, tuttavia, che il Governo, che ha voluto la legge e che oggi propone i decreti attuativi, abbia l’obbligo di comunicare le sue scelte: ove fosse confermato, come l’Esecutivo ha più volte ribadito nella discussione in Parlamento e come si ricaverebbe dall’impianto dello schema di decreto n. 344, che si tratta di due istituti distinti e non sovrapponibili, dovrebbe essere espunto l’uso della fascia tricolore, che si collega in modo stretto alla solennità della celebrazione del matrimonio, e non al formale riconoscimento di una unione, derivante dalla mera registrazione della volontà delle due persone dello stesso sesso; se, invece, si insistesse nel mantenere questa disposizione, cadrebbe l’ipocrisia della presunta differenza tra i due istituti e si effettuerebbe un passo decisivo verso la parificazione, anche formale.

In proposito, rammenta che tale estensione non vi era nel primo decreto attuativo ex articolo 1 comma 34 della legge n. 76 del 2016, quello che recava le disposizioni transitorie per rendere rapidamente operativa la legge medesima.

Si domanda, infatti, cosa sia accaduto nelle more, non in termini propagandistici ma di riflessione giuridica, per convincere del contrario.

Ricorda, altresì, che l’ultimo atto che disciplina l’uso della fascia tricoGiovedì 3 novembre 2016 — 36 — Commissione II lore – la circolare del Ministro dell’Interno 4 novembre 1998 n. 5, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 18 novembre 1998, n. 270, tutt’ora in vigore – ne richiama « il valore altamente simbolico », legato alla « realtà dello Stato come elemento di unità giuridica ». Osserva, quindi, come sia veramente singolare che il suo uso venga associato a una semplice registrazione, dal momento che non vi sono precedenti per un atto amministrativo così qualificato. Sottolinea che l’effetto di tale uso sarà quello di celebrare i matrimoni e registrare le unioni civili nella medesima sala del Comune, con ulteriore elemento di equiparazione fra i due istituti e si domanda per quale ragione si dovrebbe distinguere fra i locali se il Sindaco o chi per lui adopera il simbolo più impegnativo legato alla propria funzione. Nel soffermarsi sullo schema di decreto n. 345, osserva che lo stesso risponde alla esigenza di adattare il diritto privato internazionale alle novità costituite dalla legge n. 76 del 2016.

Rammenta che, nella relazione illustrativa del provvedimento si legge che « la ratio del criterio direttivo contenuto nella delega appare (...) connessa all’esigenza di evitare comportamenti elusivi della disciplina italiana, di cittadini italiani che si rechino all’estero per sottrarsi alla legge n. 76 del 2016 in una logica di system shopping. Si possono dunque sottrarre al normale gioco delle norme di diritto internazionale privato i casi nei quali una situazione « totalmente italiana » sia stata deliberatamente trasformata in « transnazionale » allo scopo di applicare un regime giuridico non previsto dalla legge italiana. In questi casi l’unione « estera » andrebbe riconosciuta come produttiva degli effetti previsti non già dalla legge straniera bensì dalla legge n. 76 del 2016. Nel caso di unione civile costituita all’estero da cittadini italiani abitualmente residenti all’estero e/o da stranieri, il carattere intrinsecamente transnazionale del rapporto implica la normale operatività delle norme della legge n. 218 del 1995, e una soluzione rigidamente volta ad imporre comunque la disciplina italiana apparirebbe ingiustificata e irragionevole in riferimento all’articolo 3 della Costituzione e potrebbe costituire un ostacolo alla libera circolazione nell’ambito dell’Unione europea ».

Evidenzia, tuttavia, come questo pregevole ragionamento venga in seguito contraddetto dallo stesso decreto. Rammenta, infatti, che la medesima relazione aggiunge: « lo schema di decreto legislativo contempla anche la possibilità, per il cittadino di uno Stato straniero che non la consente, di costituire un’unione civile tra persone dello stesso sesso in Italia. La legge n. 76 del 2016 non prevede condizionamenti di tipo spaziale: non limita cioè l’accesso all’unione civile a chi sia legato al nostro ordinamento da vincoli quali la cittadinanza e/o la residenza. Del resto, il richiamo – nel comma 19 della legge n. 76 del 2016 – all’articolo 116, primo comma, del codice civile (“Matrimonio dello straniero nello Stato”) lascia intendere che qualsiasi straniero possa costituire un’unione civile in Italia. (...) È facile prevedere che, laddove lo straniero intenzionato a costituire un’unione civile con persona del suo stesso sesso sia cittadino di uno Stato che non conosce l’istituto, non sarà in grado di ottenere il nulla osta da presentare all’ufficiale di stato civile. Non procedere alla registrazione dell’unione in questi casi, stante l’assenza del nulla osta, lasciando poi all’interessato l’iniziativa di adire eventualmente l’autorità giudiziaria, invocando la violazione del principio di non discriminazione e chiedendo la dispensa dalla produzione del nulla osta è soluzione non del tutto appagante. Più adeguata ad una piena e immediata garanzia dei diritti fondamentali del singolo appare invece considerare contrario all’ordine pubblico (articolo 16 legge n. 218 del 1995) il mancato rilascio del nulla osta da parte delle autorità straniere e di procedere comunque alla registrazione, essendosi in presenza di un diritto inviolabile il cui esercizio deve essere garantito a tutti. Il richiamo operato dalla legge n. 76 del 2016 (al comma 1) agli articoli2e3 Cost., da un lato, e i vincoli che derivano dalle convenzioni internazionali a salvaguardia Giovedì 3 novembre 2016 — 37 — Commissione I dei diritti umani (prima tra tutte la Convenzione europea, nella lettura fornitane dalla Corte europea) inducono a propendere per questa seconda soluzione. Il presente schema contiene pertanto una disposizione ai sensi della quale “ai fini del nulla osta di cui all’articolo 116, primo comma, del codice civile, non rilevano gli impedimenti relativi al sesso delle parti” (articolo 32-ter, comma 2, secondo periodo) ».

A suo avviso, una soluzione delle genere è da ritenersi inaccettabile in quanto: evoca la categoria dell’ordine pubblico per includervi la disciplina delle unioni civili fra persone dello stesso sesso, il che è oltre ogni limite di buon senso e di uso corretto di espressioni che hanno un significato molto più contenuto in quanto molto più impegnativo; riconduce questa categoria a una esegesi della Convenzione europea dei diritti tutt’altro che pacifica, e anzi assai controversa nella giurisprudenza delle Corti europee e in quella delle Corti dei singoli Stati che a esse fanno riferimento; segue quella logica di system shopping che pure la medesima impostazione aveva avuto cura di censurare, con riferimento a cittadini italiani che si rechino al di fuori dei confini nazionali; qui invece diventa possibile il contrario, violando ogni elementare condizione di reciprocità e di mutuo affidamento; cita come elemento di analogia con questo caso l’« ipotesi in cui il nulla osta è stato rifiutato per motivi religiosi (il caso tipico è quello della donna, cittadina di uno Stato a matrice religiosa islamica, a cui non è concesso sposare un uomo di altra religione): ipotesi che (...) sono state chiarite dal Ministero dell’interno con una circolare (11 settembre 2007, n. 46) che impone agli ufficiali dello stato civile di non tener conto – perché contraria all’ordine pubblico (articolo 16 della legge n. 218 del 1995) – della condizione relativa alla fede islamica eventualmente contenuta nel nulla osta al matrimonio ».

Ritiene che correttamente quest’ultimo caso sia stato superato perché realizza una palese discriminazione, e si pone in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione. Si tratta, a suo avviso, tuttavia, di ipotesi del tutto differente da quella in esame: qui è in discussione la legittima scelta di uno Stato di non disciplinare – con un regime prossimo a quello matrimoniale – l’unione « same sex »; aggirare questa opzione significa minare i fondamenti del diritto internazionale privato.

Quanto allo schema di decreto n. 346, che attiene alla disciplina penalistica e processualpenalistica, osserva che le disposizioni introdotte si collocano più che nell’ottica della equiparazione in quella della eliminazione di situazioni di disagio soggettivo e/o di incompatibilità.

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